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Pil. Un colpo di genio, o uno strumento del demonio?

IL DIBATTITO SUGLI INDICATORI
di S. Monni
e A. Spaventa

PIL. Se ne parla molto. C’è chi lo ritiene una delle massime invenzioni del novecento e chi uno strumento del demonio. C’è anche chi ha opinioni più moderate, ma i campi in generale sono ben definiti: o si è a favore o contro.

Questioni accademiche, direte. Mica tanto, se, per dirne una, Sarkozy ha deciso di istituire una commissione con dentro più premi nobel che commessi. È vero che probabilmente il presidente francese era in vena di grandeur e sognava una via francese nella statistica mondiale, ma qualcosa di politico ci deve essere. E in effetti c’è. Il PIL si propone, con più o meno fortuna, di misurare la ricchezza di una collettività, in genere uno stato. È stato elaborato nell’ambito di un corpus teorico che assume la crescita economica come elemento fondamentale. Elemento di fondo che rimane anche in tutte le versioni corrette dell’indicatore. Ed è qui che entra in gioco l’elemento di politica, o meglio, come direbbe un economista, di policy, che poi si trasforma però appunto in elemento di scelta politica.

Assumere il PIL come indicatore fondamentale delle performance di una nazione significa che l’obiettivo perseguito da quella stessa nazione è la crescita economica. Più o meno condivisibile, ma il problema è che tale obiettivo spesso viene determinato per default. Lo si persegue perché così è e così si fa, ma in molti casi non c’è stata una scelta vera e propria: sicuramente non da parte di chi dovrebbe farla, i cittadini; ma spesso e volentieri nemmeno dai governanti, che prendono la cosa come un dato di fatto.

È questo secondo noi il vero nodo della questione, ovvero non che cosa si misura, ma chi decide cosa misurare. È un problema che affligge non solo il PIL, ma anche tutte le misure alternative elaborate nel corso degli ultimi decenni, dagli indicatori dei bisogni fondamentali (basic needs), passando per l’Indice di Sviluppo Umano (Human Development Index) fino alla batteria di indicatori proposti dalla Commissione Sarkozy. Ognuno di questi indicatori, o insieme di indicatori, discende da un approccio teorico più o meno ben definito che esplicitamente o implicitamente definisce cosa si debba intendere per benessere di una società e quali obiettivi essa debba perseguire. Per alcuni l’obiettivo è la ricchezza di una comunità e quindi la crescita, per altri lo sviluppo inteso come soddisfacimento dei bisogni fondamentali (cibo, acqua, trattamento sanitario, distribuzione del reddito, ecc.), per altri ancora la capacità di assicurare una vita piena e dignitosa.

Il dibattito sugli indicatori quindi è in realtà un dibattito sugli obiettivi da perseguire. Una volta deciso a quale scuola di pensiero aderire la strada è segnata: si può essere o meno d’accordo se il dato indicatore sia quello più adatto o efficace in relazione agli obiettivi definiti dalla teoria, ma per il resto non c’è molto da discutere. E se si adotta un indicatore al posto di un altro implicitamente si sta scegliendo anche l’obiettivo che la società dovrebbe perseguire.

Ma visto che indicatori e obiettivi rappresentano due diverse facce della stessa medaglia, e visto che questi ultimi determinano le politiche economiche, che in effetti influiranno sulla vita dei cittadini, non dovrebbe la scelta dei primi derivare da un dibattito pubblico? In altre parole, chi dovrebbe decidere che cosa effettivamente contribuisce a migliorare il benessere di un paese: accademici e tecnocrati o i cittadini stessi?

Per quanto populista possa sembrare noi pensiamo che nonostante tutto questa ultima opzione sia quella preferibile. E, nonostante tutte le obiezioni che si possono muovere, anche non particolarmente difficile da realizzare nell’ambito di comunità caratterizzate da istituzioni democratiche o comunque rappresentative: non sono le elezioni o i consessi internazionali di governi democraticamente eletti a mancare, almeno in Europa. E allora ecco la nostra proposta: invertiamo la sequenza logica, dibattiamo prima degli obiettivi, scegliamo cos’è che realmente vogliamo, e poi pensiamo all’indicatore da usare. Potrà anche essere il povero e bistrattato PIL, ma almeno lo avremo deciso noi.

Già su il Manifesto, 18 luglio 2010

 

1 Commento per “Pil. Un colpo di genio, o uno strumento del demonio?”

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