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Per le donne l’orologio della storia è lento

LA QUESTIONE FEMMINILE
di Carlo Buttaroni

Ad aprile del 2004, la più grande società di brokeraggio degli Stati Uniti, la Merrill Lynch è stata condannata a risarcire con 2,2 milioni di dollari una sua ex dipendente. La motivazione è inequivocabile: discriminazione sistematica e diffusa nei confronti dei dipendenti di sesso femminile. Si legge, infatti, nel dispositivo del collegio arbitrale: “Le mancanze di Merrill Lynch nell’educazione e nella disciplina degli impiegati coinvolti in discriminazioni sessuali costituiscono una violazione intenzionale, o quantomeno un’ostentata noncuranza, dei diritti federali che tutelano il lavoro femminile”.

I giudici sono giunti a queste conclusioni dopo aver raccolto 28 ore di testimonianze e aver ricostruito le modalità di assunzione, promozione e retribuzione della Merrill Lynch. Ne è emerso che su 15.000 dipendenti le donne che occupavano posizioni di prestigio nell’organico della società, nel 1999, erano solo un direttore di distretto, 11 vice presidenti regionali e 5 direttori vendita. E per i giudici “Merrill Lynch non ha fornito una spiegazione non discriminatoria per la scarsa rappresentanza delle donne in ruoli di management”.
La Merrill Lynch, alcuni anni prima, aveva dovuto pagare oltre 100 milioni di dollari per una class action promossa da centinaia di dipendenti di sesso femminile. Nel mirino della giustizia successivamente sono andati anche la concorrente Smith Barney (Citigroup) e poi la Morgan Stanley, altra importante banca d’affari, che secondo la Commissione federale per le pari opportunità applicava un modello di pratica discriminatoria nei confronti dei propri agenti di vendita e traders di sesso femminile. La Commissione aveva, infatti, accolto il ricorso della signora Allison Schieffelin che era stata licenziata nel 2000 nonostante avesse guadagnato come trader più di un milione di dollari. Se potessimo spostare l’orologio della storia indietro di cento anni e poi far scorrere di nuovo le lancette in avanti, ci accorgeremmo che i cambiamenti che hanno caratterizzato la nostra epoca, e specificatamente questa parte del mondo, non hanno paragoni con tutta la storia precedente dell’umanità. Basti pensare alle grandi scoperte scientifiche (dalla medicina alla fisica, dalla biologia alla chimica) e ai progressi tecnologici (dalla radio ai cellulari, dalla televisione ai computer) e alla loro applicazione nella vita di tutti i giorni.

II Novecento è indubbiamente il secolo del progresso, del movimento e della velocità: persone, merci, denaro e informazioni, hanno progressivamente raggiunto luoghi sempre più distanti in tempi sempre più brevi. All’inizio del secolo le auto circolanti in Italia erano poco più di 2 mila. Cento anni dopo sono oltre 34 milioni. Nel 1926 negli aeroporti italiani si contavano 4 mila passeggeri. Oggi i passeggeri supererano i 35 milioni. Persino il voto è scontato si svolga a suffragio universale maschile e femminile ma per buona parte del novecento la possibilità di partecipare alle consultazioni elettorali era in gran parte limitata dal censo o dal sesso (le donne, infatti, non potevano votare). Sicuramente siamo più liberi delle generazioni che ci hanno preceduto: abbiamo più campi di esplorazione, più possibilità, più scelte da poter compiere; non aderiamo più ad una traccia di vita già scritta, non siamo più incastrati in ruoli sociali predefiniti, siamo svincolati negli orientamenti; viviamo, per la prima volta, l’esperienza di un’esistenza più lunga e piena, di distanze più brevi, di un tempo più veloce. Ancora oggi, però, alcuni diritti sono più esigibili per gli uomini di quanto lo siano in realtà per le donne.

Non è soltanto una questione di equità, di giustizia, di solidarietà. Non basta scandalizzarsi per una giovane donna condannata alla lapidazione per aver tradito il proprio marito. Certo, c’è tutto questo. Ma c’è altro ancora, qualcosa di profondo che ci riguarda tutti molto da vicino. Un vulnus culturale e sociale che non fa procedere il progresso dei diritti dell’individuo alla stessa velocità con cui avanza il progresso tecnologico e scientifico. La teoria secondo la quale “qui è sempre meglio che altrove” è insostenibile. Quanto pericolosamente diffusa. Accetteremmo di fare un trapianto di cuore sapendo che saranno utilizzati strumenti chirurgici vecchi e sporchi, correndo quindi il rischio di contrarre un’infezione mortale, anche se il cuore ricomincerà a funzionare a meraviglia? Perché allora nel nostro mondo veloce e tecnologico le regole che lo governano sono ancora esclusive, discriminatorie, scritte dagli uomini per le donne? Perché la signora Allison Schieffelin, pur avendo fatto guadagnare milioni di dollari alla sua società, si è dovuta rivolgere alla magistratura per far valere i suoi diritti? Pare di sentirli i garantisti del sistema: “Per fortuna c’è un tribunale che salvaguarda i diritti della signora Schieffelin e delle altre donne”. Certo. Ma la Schieffelin non ha accusato la sua società di furto.
La Morgan Stanley non è andata sul banco degli accusati per associazione a delinquere. Non c’è una motivazione oggettiva, che razionalmente possiamo comprendere anche se condannare. La discriminazione che la Schieffelin ha denunciato non ha una ragione economica. Il motivo è un altro, subdolo e insidioso: la gestione del potere, l’auto-mantenimento di un sistema che conserva un baricentro spostato nel passato. Nel diritto romano, che influenzò il successivo diritto occidentale la moglie era una “proprietà” del marito. Non godeva del controllo giuridico della sua persona, dei suoi figli, delle sue terre o dei suoi averi. Durante il Medioevo, il diritto feudale prevedeva che la terra si tramandasse per discendenza maschile.

Da allora l’uomo è andato sulla luna e progetta l’esplorazione di altri pianeti. Ma se quei tempi ci sembrano lontanissimi con le misure tecnologiche di cui disponiamo oggi, perché non lo sono altrettanto dal punto di vista dei diritti delle donne? Perché, ancora oggi, una donna deve rivolgersi a un tribunale per far valere i propri diritti? E questa non è che la punta dell’iceberg. Quante violazioni sono quotidianamente e sistematicamente consumate all’interno delle famiglie senza che nessun giudice potrà mai intervenire. Una donna può impegnarsi sul lavoro o in politica? Certo ci mancherebbe altro. Dopo, però, aver badato alla casa, alla spesa, ai figli e al marito. E probabilmente ai suoi genitori e a quelli del proprio consorte. Nessun giudice potrà mai intervenire sull’organizzazione del tempo e degli impegni. Nessuna norma potrà mai sancire tanto le “pari opportunità” quanto le “pari aspirazioni” tra uomini e donne. Non ci sono viaggi interplanetari capaci di costruire un ponte tra passato e presente se su quel ponte non potranno finalmente transitare uomini e donne, liberi di costruirsi il proprio futuro. Così come la civiltà non sarà mai tale se non sarà colmato il solco profondo tra buona teoria e buona prassi. La questione femminile non è ancora un argomento da confinare nei libri di storia. E’ cronaca quotidiana che trova raramente spazio nei media e solo quando assume la fisionomia eclatante di Davide che sfida Golia. Eppure in questo quadro del “quotidiano” le donne non sono solo “protagoniste” perché sopportano più pesi ma anche perché, dato il tradizionale ruolo nelle dinamiche familiari (ampiamente studiato e rappresentato), sono “agenti di sistema” in grado di operare cambiamenti radicali i cui effetti escono dall’ambito della famiglia. Si è visto, ad esempio, che un aiuto economico offerto alle donne ha un effetto sensibile sulla scolarizzazione dei figli e, quindi, sull’inserimento sociale di questi ultimi e, conseguentemente, sulle dinamiche economiche più generali.

Se consideriamo, ad esempio, il ruolo della donna all’interno della famiglia e la quantità di competenze di cui deve essere in possesso per condurre in maniera adeguata il suo nucleo familiare (competenze nella gestione, uso e distribuzione delle risorse, competenze culturali ed educative, competenze sanitarie, ecc.) ci rendiamo conto della straordinaria funzione sociale. Un proverbio africano recita: “Se educhi un uomo, educhi un uomo; se educhi una donna, educhi una famiglia”. Le donne, quindi, non sono solo “volani” della vita del loro nucleo domestico ma anche delle dinamiche di ampi settori della vita del Paese. Si tratta di “lavoro invisibile” che non compare nelle statistiche ufficiali e non riceve gratificazione economica e, soprattutto, sociale. Al contrario degli uomini che non solo hanno tradizionalmente più opportunità, più campi in cui inserirsi, più scelte da poter compiere ma, sgravati dalla responsabilità della gestione quotidiana, attraverso la leva economica esercitano un potere gerarchico nei confronti delle donne. In un tempo in cui il lungo e tortuoso processo di emancipazione femminile non cessa di presentare i sui “conti”, i motivi della discriminazione richiedono, quindi, per prima cosa, la consapevolezza che il tempo delle pari aspirazioni non è ancora arrivato. Analizzare e descrivere i motivi che sottendono le disuguaglianze tra uomini e donne nella società contemporanea significa, innanzitutto, affrontarne i molteplici caratteri, le mille insidie. Insomma, non è ancora il luogo e il tempo per dire “c’era una volta…”, perché purtroppo non è una favola e perché, soprattutto, il lieto fine non può essere scritto finché per le donne l’orologio della storia continua a scorrere più lentamente e con più difficoltà. Quando non è del tutto fermo. Questo è il nostro pensiero dell’8 marzo, dedicato a tutte le donne, di tutte le età e di tutte le latitudini.

 

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