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La strana guerra nello pseudoambiente libico

LO STUPIDARIO MILITARESCO E QUELLO PACIFISTA | di Fabio Germani
di Fabio Germani

Forse eravamo stati fin troppo lungimiranti, proprio su queste pagine, parlando della crisi della comunicazione di crisi. Soprattutto nella citazione di Hiram Johnson: “Quando scoppia una guerra, la prima vittima è la verità”. 
Intendiamoci: sappiamo bene del perché e del percome si è giunti in Libia con l’operazione Odissea all’Alba. Non è chiara, invece, la goccia che ha fatto traboccare il vaso e perché si è atteso diverse settimane prima di intervenire. E ancora non è chiaro chi sarà a comandare la coalizione una volta che gli Stati Uniti lasceranno il timone (ieri sembrava raggiunto l’accordo sulla Nato, oggi la Francia ha nuovamente sparigliato le carte). La ragione del conflitto invece – la cui tempistica è senz’altro opinabile – è esplicitata nella Risoluzione 1973 dell’Onu: i raid aerei sono in difesa dei civili. Messa così non ci sarebbe nulla da eccepire. Ma il secondo punto – chi comanda le operazioni – ricorda tanto quelle discussioni liceali che avevano lo scopo di decidere chi era meritevole di rappresentare la classe. Una rincorsa a cosa?
Il Corriere della Sera ha pubblicato un editoriale di Bernard-Henry Lévy: con questo Gheddafi, scrive, le buone non funzionano. Aggiunge Lévy: “Non è un intervento di terra, con carri armati, fanteria, occupazione, green zone e così via. È il contrario, dunque, della guerra, insensata, in Iraq”. Successivamente il giornalista e filosofo francese si domanda (e si risponde): “Appunto, cos’è una guerra giusta? È una guerra che impedisce una guerra contro i civili. È una guerra che […] sottrae la guerra alla guerra. Infine, è una guerra che, lungi dal pretendere, come in Iraq, di paracadutare, in un deserto politico, una democrazia pronta all’uso, si appoggia su un’insurrezione nascente, cioè permette, e permette soltanto, ai liberatori di fare il loro lavoro di liberatori e aiuta quindi, nella circostanza attuale, i libici a liberare la Libia”. Perciò Lévy scagiona l’interventismo francese (Cicero pro domo sua?) in quanto “è una guerra di iniziativa francese, ma non è una guerra francese […] è una guerra in cui sono entrati, a fianco della Francia e degli occidentali, nella stessa coalizione, il Qatar, gli Emirati, l’Egitto, mandatari sia di se stessi, sia di una Lega araba presente, fin dall’inizio, nel cuore di questo movimento di solidarietà mondiale con un Paese messo a ferro e fuoco dal proprio dirigente”.
Diametralmente opposte le tesi di coloro che guardano con sospetto alle smanie di Sarkozy. Come verrà spartita la torta al termine delle ostilità? Le polemiche delle ultime ore tra Italia e Francia sul comando delle operazioni sono strumentali? Le attenzioni che Parigi riserva al Nordafrica non sono certo un segreto. In particolare da quando fu promossa nel 2008, durante la presidenza di turno francese dell’Ue, l’Unione per il Mediterraneo, il progetto più ambizioso dai tempi del Processo di Barcellona. Dell’Unione la Libia è però membro osservatore: Gheddafi la ritenne un espediente europeo per esercitare la propria ingerenza sui Paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo. Franco Cardini analizza su Europa: “Gli interventi umanitari da parte della comunità internazionale debbono esser decisi primariamente ed esclusivamente dall’Organizzazione delle Nazioni Unite: che non può andar a rimorchio di nessuno, contrariamente a quel che fece nel 2003 con gli Usa a proposito dell’Iraq e a quel che ha fatto adesso a rimorchio della Francia. Aggiungiamo che la Nato (North Atlantic Treaty Organization) non avrebbe alcun titolo per intervenire in quel Mediterraneo nel quale invece spadroneggia; e che sarebbe ormai ora che i paesi membri dell’Unione europea, dopo aver dato tante e tanto squallide prove di sé, cominciassero ad agire di comune accordo fra loro – e senza aspettare il placet americano o farsi travolgere dei fulmini di guerra degli emuli del Bonaparte – e a tracciare insieme un abbozzo di comune politica di difesa”.
Ma queste ultime, lo abbiamo osservato all’inizio con Lévy, sono questioni di merito. Il dubbio che maggiormente pervade l’opinione pubblica è l’opportunità o meno di intervenire. “Il dibattito su cosa stiamo facendo in Libia – prova a rispondere Marco Bracconi di Repubblica sul suo blog – è non solo legittimo, ma addirittura opportuno. La discussione non è sempre scontro e rottura. È il motivo per cui viviamo in una democrazia. Ma da sempre quando si alzano in volo gli aerei militari, esiste uno stupidario militaresco quanto uno stupidario pacifista. E dopo appena tre giorni già si intravedono i segnali di un impazzimento generalizzato delle opinioni”. E poiché la paura recita talvolta la sua parte viene da chiedersi, infine, se un linguaggio tout court non giochi a favore dell’isteria collettiva. “Temo gli attentati terroristici, non i missili”, ha dichiarato il ministro La Russa in una intervista a CorriereTv a proposito di eventuali ritorsioni libiche. Lippmann raccontava uno pseudo-ambiente di ben altro tipo.

 

2 Commenti per “La strana guerra nello pseudoambiente libico”

  1. Greek

    Che gran passo avanti. Complimenti, ragazzi. Vi seguirò.

  2. redazione

    Grazie, Greek!

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