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Troppi i professionisti prestati alla politica?

E' giusto che il Parlamento sia pieno di avvocati che esercitano la professione? Di Pietro pensa di no...

“Io sono un imprenditore prestato temporaneamente alla politica”, ebbe a dire a giugno dello scorso anno (ma anche in altre occasioni) il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. La cornice era l’assemblea della Confartigianato in cui propose alla presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, l’incarico di ministro dello Sviluppo economico coinvolgendo la platea che però rispose picche. Più tardi il siparietto si ripeté con il numero uno di Confartigianato, Giorgio Guerrini, il quale laconicamente affermò: “Ognuno deve fare il proprio mestiere”. E ciò non varrebbe solo per gli imprenditori, ma anche per gli avvocati, i commercialisti e gli architetti. O almeno è quanto deve avere pensato Antonio Di Pietro nelle ultime settimane, considerata la proposta di legge presentata alla Camera il primo aprile.
Dove vuole andare a parare il leader dell’Idv? Chi esercita la professione di avvocato, ma più genericamente tutte quelle mansioni “il cui esercizio è condizionato all’iscrizione a un albo professionale”, non può occupare posti in Parlamento.
Certo, di primo acchito potrebbe sembrare il tipico discorso a nuora perché suocera intenda (basti pensare ai legali del premier e parlamentari del Pdl Piero Longo e Niccolò Ghedini), ma La Repubblica ha già contato – qualora la legge entrasse in vigore – un esodo di massa. Solo alla Camera le dimissioni dei deputati-avvocati (salvo diversa decisione dei diretti interessati) sarebbero 90: da Maurizio Paniz del Pdl a Giulia Bongiorno e Giuseppe Consolo di Fli, passando per il capogruppo del Pd Dario Franceschini. “Il mandato parlamentare è incompatibile con l’esercizio delle professioni intellettuali regolamentate, il cui esercizio è condizionato all’iscrizione a un albo professionale. L’esercizio delle professioni di cui al comma 1 è sospeso durante il periodo del mandato parlamentare”, è scritto nel testo assegnato ieri alla Commissione Affari costituzionali che introduce l’articolo 4-bis alla legge 15 febbraio 1953 n. 60 relativa ad alcune incompatibilità parlamentari. Dunque, “i membri del Parlamento per i quali sussiste o si determina l’incompatibilità” devono “entro un mese dalla data di entrata in vigore della presente legge, optare fra il mandato parlamentare e l’esercizio della libera professione”. In sostanza il timore di Di Pietro è che “l’esercizio della libera professione, cumulata all’ufficio parlamentare, non può ritenersi immune da diversi, più o meno piccoli, conflitti di interesse, annidati tra le pieghe dell’attività parlamentare” poiché “chi intende assumersi la responsabilità di diventare rappresentante del popolo nelle istituzioni deve potervisi dedicare interamente, a tempo pieno”. Fermo restando, inoltre, che i professionisti “prestati” alla politica (come se non guadagnassero già abbastanza) non costano poco ai cittadini. “Al fine di garantire piena indipendenza di pensiero e di giudizio – ricorda infatti il leader dell’Italia dei valori –, sono stati previsti per gli uffici parlamentari benefìci economici e previdenziali adeguati all’impegno richiesto”.
Insomma, è la richiesta di Di Pietro, chi vuole sedere in Parlamento deve fare il “politico di professione” e non il professionista “prestato” alla politica, limitando così al minimo – laddove si presuppone una convinta scelta di campo – candidature di comodo. Del resto né libri né cavalli si prestano mai. Perché ciò dovrebbe avvenire con le professioni?

 

1 Commento per “Troppi i professionisti prestati alla politica?”

  1. […] part-time? Ammetterlo mi fa una certa impressione, ma io credo che Di Pietro su questa cosa abbia più che ragione. Credo davvero che lo Stato dia ai parlamentari quanto basta per pretendere […]

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