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La Spagna al voto: finisce l’era Zapatero

di Antonio Caputo

Con le elezioni di domenica, la Spagna porrà fine all’era Zapatero: sette anni e mezzo caratterizzati, nella prima parte (2004/2008) da una forte crescita economica, e nella seconda (dopo le elezioni 2008) dalla recessione, che non solo non ha risparmiato, ma che ha, anzi, colpito assai duramente il Paese. Le elezioni anticipate sono conseguenza delle dimissioni del Premier Zapatero (che non si ricandiderà), resosi conto di non poter fronteggiare la tempesta sui mercati.
Analogie con l’Italia? Si e no: da noi la crisi riguarda soprattutto il debito pubblico (oltre il 120% del PIL, quasi il doppio del 69% spagnolo, livello migliore persino di quello tedesco), da loro il deficit (a due cifre mentre noi siamo tranquillamente sotto il 4% e con un buon avanzo primario); la crisi spagnola ha due fattori scatenanti: l’indebitamento delle banche (da cui noi siamo quasi immuni) e la centralità del settore edilizio, messo in crisi e per cui
l’intera economia iberica ne ha risentito. Drammatica la disoccupazione: circa il 20%, più del doppio dell’8,5% nostrano.

La sfida elettorale vedrà contrapposti il vicepremier Alfredo Rubalcaba, socialista, delfino di Zapatero, e l’eterno rivale del premier uscente, Mariano Rajoy, portabandiera del Partito Popolare e a sua volta delfino dell’ex premier Aznar sotto il cui governo iniziò quel boom economico che ha fatto (nel giro di poco più di un decennio) progredire la Spagna, facendone uno dei Paesi più competitivi a livello internazionale.

Gli otto anni di Aznar sarebbero proseguiti con Rajoy, se nel 2004 non fossero intervenuti, alla vigilia del voto, gli attentati a Madrid, ad opera di al Qaeda, (che causarono circa 300 morti), unanimemente considerati la risposta dell’organizzazione terrorista alla partecipazione spagnola alla guerra in Iraq. Per evitare che la pubblica opinione, contrarissima alla guerra, collegasse le bombe al conflitto iracheno, Aznar cercò di scaricarne la responsabilità sui separatisti baschi dell’Eta (i cui attentati hanno da sempre insanguinato il Paese), ma la cosa venne a galla a urne quasi aperte. Risultato: sondaggi ribaltati e vittoria per i socialisti di Zapatero, accreditato alla vigilia come malcapitato di turno messo li dal Partito che, presagendo la scoppola, non intendeva rischiare candidati forti.

Nel primo mandato, Zapatero proseguì l’opera di Aznar in economia (con piccole correzioni in senso più sociale e meno liberista), con però forti discontinuità in due settori: politica estera, e rapporti con la Chiesa. Rimasta cioè (quasi) identica la sostanza in economia, il nuovo premier fece risaltare le differenze sul resto: ritiro dall’Iraq come primo atto del governo; e scontro a tutto campo con la Chiesa (che pure in molti suoi esponenti aveva appoggiato il Partito socialista, proprio a causa della guerra, assai osteggiata dal mondo cattolico): aborto, matrimoni gay, divorzio lampo e legge laicista sull’educazione civica.

La crisi è la spina nel fianco dei socialisti, nettamente indietro nei sondaggi: Partito del premier attorno al 30% (era al 44%), a fronte del 46/47 attribuito ai Popolari (il 40% nel 2008), un dato che garantirà, con ogni probabilità, al partito di Rajoy la maggioranza assoluta in seggi. Leggera ripresa per Izquierda Unida (sinistra radicale) che dovrebbe sfiorare il 6% (era sotto il 4% ed ha rischiato la scomparsa, fermandosi a soli due seggi) e nuova linfa per le formazioni autonomiste che dovrebbero fare il pieno o quasi nei territori di riferimento.

Chiudiamo col sistema istituzionale ed elettorale: il Parlamento esprime la fiducia (con maggioranza assoluta nella prima votazione, e, se non raggiunta, con quella relativa nella seconda) al solo premier; sarà poi il premier a nominare i ministri (su cui il Parlamento non vota). Se il premier non ottiene la fiducia e se vanno a vuoto i tentativi per formare un altro governo, si torna alle elezioni. Per abbattere l’esecutivo, è necessaria la “sfiducia costruttiva”, con l’indicazione di nuovo premier (in sostituzione di quello uscente) e maggioranza a sostegno. Ancora, i gruppi parlamentari sono strettamente collegati ai partiti presentatisi alle urne e, se uno o più deputati decidessero di uscire da un gruppo, o ne venissero espulsi, non potrebbero aderire ad altro gruppo già esistente, né formare un ulteriore gruppo, ma si collocheranno automaticamente nel misto rimanendo ciascuno da solo (interessante per l’Italia…). Il sistema elettorale è proporzionale, ma con dei correttivi, su tutti l’elezione su base provinciale dei deputati. C’è uno sbarramento formale al 3% (provinciale), ma, eleggendo la maggior parte delle province pochi seggi (in media sette), in realtà anche superare il 3%, nella più gran parte dei casi non basta. Gli effetti di tale sistema sono: 1) premialità per (entrambi) i partiti maggiori, sovrarappresentati; 2) drastico ridimensionamento per le forze minori, diffuse sul territorio (partiti cioè del 5% nazionale e che resti più o meno tale nelle varie province); 3) proporzione equilibrata voti-seggi per le formazioni locali, che non temono la piccola dimensione delle circoscrizioni (il 15-20% in una provincia con cinque seggi consente tranquillamente agli autonomisti di fare il seggio). Un buon
mix rappresentatività – governabilità, per il quale il Parlamento spagnolo è il più bipartitico (non bipolare, bipartitico) d’Europa.

 

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