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“Cerchiamo di darci una mossa, tutti quanti”

di Pietro Raffa

Il 45° Rapporto Censis è, come i precedenti, pieno di considerazioni interessanti su quel che riguarda la situazione sociale italiana. Voglio però soffermarmi su un dato specifico, presente all’interno del capitolo «Lavoro, professionalità, rappresentanze”:

I giovani sono oggi i lavoratori su cui grava di più il costo della mobilità in uscita. Nel 2010, su 100 licenziamenti che hanno determinato una condizione di inoccupazione, 38 hanno riguardato giovani con meno di 35 anni e 30 soggetti con 35-44 anni. Solo in 32 casi si è trattato di persone con 45 anni o più. L’Italia presenta un tasso di anzianità aziendale ben superiore a quello dei principali Paesi europei. Lavora nella stessa azienda da più di dieci anni il 50,7% dei lavoratori italiani, il 44,6% dei tedeschi, il 43,3% dei francesi, il 34,5% degli spagnoli e il 32,3% degli inglesi. Tuttavia, solo il 23,4% dei giovani risulta disponibile a trasferirsi in altre regioni o all’estero per trovare lavoro.

Quest’ultima frase dovrebbe far riflettere attentamente la mia generazione. Io trovo sconcertante questa bassissima propensione al trasferimento, specialmente in una situazione in cui tutti, compreso il sottoscritto, si lamentano della difficoltà di trovare lavoro.
Capisco benissimo che un cinquantenne con moglie e figli chieda di avere diritto ad una dimora fissa e a non essere sballottato di qua e di là.
È però cosa assurda che ad avanzare certe pretese sia un trentenne (o giù di lì). Quando dico che in questo Paese serve anzitutto un cambiamento culturale, accompagnato da provvedimenti legislativi che possano favorirne l’accelerazione, mi riferisco a situazioni come questa.
Se vogliamo costruire l’Italia del futuro occorre certamente cambiare la politica, ma ciò può avvenire solo se noi stessi, in primis, siamo disposti a cambiare.
Cerchiamo di darci una mossa, tutti quanti.

L’articolo è stato pubblicato inizialmente qui.

 

1 Commento per ““Cerchiamo di darci una mossa, tutti quanti””

  1. Valeria Cigliola

    “Diamoci una mossa” o in altre parole “Aiutati che Dio ti aiuta”. Forse.
    Non ho letto il rapporto del Censis, almeno non integralmente, ma temo che qualche volta non sia sufficiente darsi una mossa e che spesso Dio sia sordo o distratto.
    Quanti – giovani e meno giovani – tra quelli che hanno lasciato la propria città d’origine sono riusciti a collocarsi adeguatamente nel mondo del lavoro?
    Un piccolo sondaggio tra le persone che conosco mi dice che un trasferimento in un’altra città, o addirittura più spostamenti non sono sempre garanzia di successo.
    Conosco personalmente molti trentenni e quarantenni che accettano di fare, nelle città dove si sono trasferiti, lavori dequalificanti e senza alcuna prospettiva futura, versando più della metà di uno stipendio già magro, al proprietario della casa presa in affitto in condivisione. Quel che resta di quegli stipendi serve appena per la sopravvivenza.
    Guai se sopraggiunge una spesa imprevista, e parlo di banalissime analisi del sangue, si badi bene, non dell’acquisto di un i-pad!
    Sappiamo di cosa parliamo quando parliamo di lavoro e inoccupazione?
    Lavorare in un’altra città e lavorare a progetto: spesso trovo che gli ex giovani degli anni ’50 o ’60 non sappiano neanche cosa significhi.
    Cosa comporti esattamente un contratto a progetto: nessuno dei diritti che tutti gli altri lavoratori hanno. Niente ferie, nè permessi e malattie, tfr, tredicesime e quattordicesime sono un sogno.
    Svegliarsi al mattino e domandarsi se si riuscirà, quel mese, a lavorare per il numero di ore sufficienti a mettere insieme una somma per stare a galla, lavorare otto ore al giorno a circa sei euro l’ora e tornare a casa, la sera, pronti per la seconda occupazione: cercare un altro lavoro, quello per il quale ci si è preparati, studiando, per il quale si è deciso di cambiare città.
    In Italia, forse anche in altri paesi europei, abbiamo un esercito di persone con alle spalle diverse esperienze di lavoro, laureati nella maggior parte dei casi, passati attraverso una miriade di contratti a progetto; gente con capacità e competenze che spesso debbono mettere da parte, addirittura evitare di far comparire nel curriculum, per non sentirsi ripetere la frase: “Lei è troppo qualificato per questo lavoro!”.
    Persone che hanno un presente difficile e un futuro pressocchè nullo, che non consumano, perchè non possono farlo, che contribuiscono come altri lavoratori a nutrire le casse Inps e che non vedranno ricambiato questo “favore”.
    Cambiare città non ha funzionato? Cos’altro fare? Cambiamo paese! O forse non sarebbe meglio dire: “Cambiamo il Paese”? Per esempio intervenendo sulle leggi che regolano il lavoro. Se il Governo Monti annunciasse una simile volontà, forse si potrebbe cominciare a guardare oltre la manovra, oltre i sacrifici.

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