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Tramonta anche il bipolarismo della Seconda Repubblica

di Carlo Buttaroni

La seconda Repubblica chiude i battenti. Per ragioni diverse rispetto alla precedente stagione politica, ma con modalità che ne ricordano, per molti aspetti, l’epilogo. Ora come allora c’è un tecnico a guidare la transizione, con Monti nel ruolo che fu di Ciampi; c’è la crisi valutaria, con l’euro al posto della lira e c’è il ridimensionamento politico di leader e partiti.
L’abbandono della liturgia berlusconiana è solo il segno più evidente della fine di un’epoca. I numeri sono eloquenti e particolarmente evidenti sia nella progressiva riduzione della partecipazione elettorale, che nella perdita di consensi del Pdl (- 12% rispetto alle ultime politiche e -9% rispetto a un anno fa).
Un terremoto che ha come epicentro la coalizione guidata da Silvio Berlusconi, ma i cui effetti riguardano l’intero sistema politico: a dicembre il Partito Democratico si conferma primo partito, ma a ben guardare il primato deriva da una tenuta dei voti più che da un’espansione dei consensi. Il voto si disperde in nuovi invasi e cala la tensione bipolare: se si votasse oggi, le due principali coalizioni perderebbero il 10% dei voti rispetto al 2008 e più del 20% se il calcolo si estende a tutto il corpo elettorale.
Prende corpo la convinzione che fra i partiti non ci siano differenze chiare e sostanziali dal punto di vista dei programmi e dei valori. E l’accumularsi delle delusioni e delle disillusioni, provocate dalla crisi del modello economico, si sposa con l’idea che non esistano vere alternative politiche.
D’altra parte, per anni, si è predicato che si potesse fare a meno dei partiti e della politica. Negli anni del berlusconismo il bisogno di “qualcosa di nuovo” si è sposato con il suo contrario, dando forma a confronti spogliati di ogni connotato politico, slegati da valori e ideali di tipo sociale e civile. Nella seconda repubblica la dicotomia politica, non è stata più tra destra e sinistra, ma tra dentro e fuori, tra inclusi ed esclusi. E, infatti, oggi, mentre cresce il numero di coloro che si collocano nella fascia di povertà, cresce anche il numero di quanti scelgono di non votare.
In realtà non è l’assenza di differenze politiche e valoriali che disorienta i cittadini – differenze che ci sono e sono sostanziali – quanto la sintassi che si è sovrapposta tanto da confondere i rispettivi elettorati.
Negli ultimi anni il dibattito politico si è concentrato non tanto sulle finalità della vita sociale, quanto sui mezzi migliori per raggiungere gli obiettivi individuali. Una dinamica che si è sposata con l’iperpersonalizzazione della vita politica, dove i leader venivano “lanciati” come prodotti da promuovere con collaudate tecniche pubblicitarie.
I leader della prima repubblica, dai forti connotati politici e valoriali, sono stati sostituiti, nella seconda, da leader di prodotto, con specifiche caratteristiche di mercato.
Era quasi inevitabile che sostituire la sintassi politica con più generici “consigli per gli acquisti” avrebbe dato origine a un cortocircuitare del promettere e del mantenere. Perché i sogni sono belli finché rimangono chiusi nel cassetto, ma è difficile dover passare dalle enunciazioni ai fatti. Ma la comunicazione ha saputo porre rimedio anche a questo: da un lato rielaborando in continuazione i sogni, e alzando continuamente il livello delle promesse, dall’altro promuovendo il rito compensatorio del nemico, della battaglia, della solitudine del leader che si accompagna a uno smisurato bisogno di attenzione e di affetto, di amore e riconoscenza.
Finisce un’epoca. E cresce il desiderio di una politica ancorata ai valori e alle scelte. Un rovesciamento che segnala la necessità di un recipero di missione: far tornare la politica e l’economia a favore dell’uomo, visto non più come strumento, ma come fine. Il sapersi far carico, per ciascuno, dell’idea di bene comune, vuol dire tornare a una dimensione naturale dell’uomo-sociale. Perché nell’eclissi degli dèi non c’è l’eclissi dell’uomo, ma nell’attesa cresce, per dirla con Bauman, “la solitudine del cittadino globale”, la sua insicurezza di fronte alle nuove incertezze annunciate nell’orizzonte del nuovo millennio. Vi è una parte importante della società che esprime un’ansia di rinnovamento e di riscatto, il sentimento di un “nuovo inizio”, dove il senso del “progetto” non sia solo nelle regole scritte, ma nel comune sentire di una civile appartenenza. Chi a lungo ha predicato di poter fare a meno della politica ha fatto male i suoi conti. La promessa che la deregolamentazione dell’economia e la globalizzazione dei mercati avrebbe liberato l’individuo e risolto i grandi problemi dell’umanità non si è realizzata, e la politica, piaccia o no, resta l’unico strumento di regolazione delle contrapposte spinte sociali.
La ricerca di un “uomo forte” che sappia farsi interprete di una “politica forte” è stata la risposta incompleta di un sistema che ha vissuto gli affanni dell’inadeguatezza. La sfida vera alla quale oggi la politica è chiamata, è quella di sapersi ricostituire in agenzia di senso. Anche se inespresso, o sottaciuto, o sussurrato, si sente il bisogno di una politica che sappia progettare e farsi carico di quella rappresentazione della complessità che la società richiede. E ciò è necessario proprio oggi, nel momento in cui il regno dell’economia volge al termine e la razionalità progressiva del neoliberismo si è dimostrata inadeguata.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 19 dicembre. Qui la ricerca completa

 

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