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La politica non rappresenta più le classi sociali

di Carlo Buttaroni

Esistono ancora le classi sociali? A rilanciare il tema, seppur in termini non così diretti come suggerisce la domanda, è stato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo appassionato discorso di fine anno. Il Capo dello Stato ha più volte fatto riferimento ai lavoratori e alle forze produttive del Paese, ricordando le sue radici politiche, la sua vicinanza al mondo del lavoro, nonché il ruolo e lo slancio positivo del movimento operaio nei momenti più difficili della nostra Repubblica.
Qualche giorno prima, Susanna Camusso, in una bella e intensa intervista all’Unità, anticipava gli stessi temi, denunciando quanto il peso della crisi economica fosse a carico dei lavoratori e dei pensionati.
Il Presidente della Repubblica e la leader della Cgil, nelle loro riflessioni, hanno fatto spesso riferimento a classi di lavoratori e pensionati, pur declinandone il ruolo in un contesto nuovo – e dalle inedite insidie – com’è quello che stiamo vivendo.
Eppure, intorno all’idea di “classe”, una certa retorica politica si è periodicamente esercitata a celebrarne la fine, ritenendola inadeguata a cogliere il profilo dinamico delle trasformazioni e delle tensioni che attraversano le società globalizzate.
In modo particolare, negli ultimi anni, è prevalsa la convinzione della necessità di una nuova griglia interpretativa, al posto della tradizionale sintassi economica, capace di cogliere i paradigmi della nuova produzione. Ad alimentare questa convinzione è stata l’idea che la “classe” rappresentasse solo una posizione gerarchica riferita all’occupazione e al reddito. Mentre la “classe”, in realtà, non è un oggetto né un’unità di misura, bensì un sistema complesso di relazioni, in grado di esprimersi anche sul terreno degli orientamenti socio-politici e del comportamento di voto.
Nonostante la relazione fra classe e orientamenti elettorali possa oggi apparire in declino, la collocazione sociale continua a essere centrale nell’interpretazione dei comportamenti politici, evidenziando andamenti fluttuanti, come molti studi, a livello internazionale, hanno recentemente dimostrato.
In Gran Bretagna, ad esempio, la letteratura scientifica nega una tendenza al declino del voto di classe, evidenziando semmai gli andamenti altalenanti. Dopo essersi collocato a livelli elevatissimi negli anni del secondo dopoguerra, il voto di classe, infatti, cala nei primi anni sessanta, risale a metà degli anni settanta, durante gli anni del conflitto industriale, si mantiene elevato durante il lungo ciclo thatcheriano, per declinare progressivamente dal 97 a oggi. Al contrario, in Germania, gli analisti evidenziano un crollo nell’immediato dopoguerra, una crescita nei primi anni sessanta, un calo nel decennio successivo, rimanendo da allora a livelli bassi, ma con accentuate variazioni regionali, legate alle radici culturali e religiose di alcune aree. In Svezia il voto di classe è sempre stato su livelli elevatissimi. L’apice è nel 1960. Negli anni successivi gli studiosi hanno registrato un calo progressivo fino al 1980, poi una nuova crescita e infine una lunga fase di stabilizzazione.
Altri studi, in particolare sui comportamenti elettorali negli Stati Uniti, mettono in evidenza un disallineamento fra classe e voto, ma non fra classe e astensionismo, che invece avrebbe conosciuto un legame sempre più marcato proprio nell’elettorato proletario, ormai privo di una propria rappresentanza politica. Secondo questa interpretazione la scelta di classe non si orienta solo su un partito ma ruota anche intorno all’opzione della partecipazione elettorale vera e propria.
Un esempio, in questo senso, è rappresentato proprio dall’Italia. Nel nostro Paese la partecipazione al voto è stata sempre alta, ma negli ultimi vent’anni la quota di voti inespressi è cresciuta in maniera costante e la composizione sociale dell’astensionismo si è andata sempre più caratterizzando da cittadini con bassa scolarizzazione e relativa marginalità nel mercato del lavoro (casalinghe, pensionati, disoccupati). Classi “oggettivamente” interessate alle politiche economiche e sociali della sinistra, che tuttavia “soggettivamente” si sono dimostrate, nell’ultimo decennio, sensibili al richiamo berlusconiano. E, infatti, le indagini più recenti hanno mostrato una crescita dell’astensionismo in corrispondenza con l’uscita di scena del leader del Pdl.
Ad alimentare la convinzione del declino delle “classi”, soprattutto in Italia, hanno contribuito le trasformazioni che hanno riguardato la struttura economica e sociale, con la vorticosa terziarizzazione dell’occupazione, che ha segnato, con la fine del secolo, il declino dei settori industriali con più alta occupazione operaia: si pensi alla siderurgia, alla cantieristica navale, ai porti, alle miniere, al settore auto. Altrettanto profondi, ma non meno ambivalenti, i cambiamenti che hanno coinvolto la natura stessa della prestazione. Se il fordismo disarticolava il lavoratore nei suoi saperi e nel suo potere di controllo sulla prestazione – ma integrandolo in enormi aggregati ne favoriva la creazione di una coscienza di classe – la prestazione di terza generazione opera esattamente al contrario: integra individualmente il lavoro nell’impresa, disarticolando il lavoratore come soggetto collettivo.
Il conflitto di classe, anche se diverso rispetto al passato, non è scomparso, né si è attenuato. Al contrario, pone nuove istanze e nuove sfide di fronte all’incalzare della crisi sociale ed economica. Non possono sfuggire le conseguenze delle nuove asimmetrie dei rapporti di potere tra finanza, produzione e lavoro e ne sono la riprova i fermenti che riguardano il mondo del lavoro. Ciò che tuttavia sembra essere mutato profondamente è il loro primato relativo, la loro perdita di centralità politica rispetto all’insieme di conflittualità che attraversano le società contemporanea. E mentre cresce la quantità sociale complessiva del lavoro, cede la sua specifica qualità politica.
Non sono, quindi, le “classi” a essere superate – benché siano cambiate in termini di composizione, caratteristiche e bisogni – ma appare inadeguata la capacità di interpretarne il connotato politico. Il deficit, quindi, non riguarda la domanda, ma l’offerta di rappresentanza. Una perdita che si rileva attraverso il suo riassorbimento nel tessuto di una conflittualità multiforme, nella quale il conflitto non è accompagnato da nessuna gerarchizzazione, da nessuna divisione visibile della società, da nessuna ultima istanza che determini la congiuntura e l’evoluzione, da nessun altro vettore di trasformazione che non sia una risultante provvisoria. Un deficit di rappresentanza che si accompagna al declino delle grandi organizzazioni politiche. Una dinamica alla quale fa da contraltare la nascita di nuove comunità di prossimità, fondate su una condivisione da esprimersi temporaneamente, prive però di una progettualità di medio/lungo periodo.
La ricerca di un “uomo forte” che sappia farsi interprete di una “politica forte” è la risposta incompleta di un sistema che vive gli affanni dell’inadeguatezza. La sfida alla quale, oggi, è chiamata la politica è quella di sapersi ricostituire in agenzia di senso, soprattutto di fronte alle nuove e variegate figure sociali, facendosi interprete – e all’altezza – della nuova complessità della società degli imperfettamente distinti.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 2 gennaio. Qui l’indagine completa.

 

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