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Usa 2012. Come sono andati i caucuses in Iowa

di Antonio Caputo

Con il caucus dell’Iowa, tradizionale primo appuntamento, che inaugura, negli anni presidenziali, la lunga maratona elettorale, è ufficialmente iniziata la corsa alla Casa Bianca, che culminerà con le elezioni generali del prossimo 6 novembre.
Ogni partito (Democratici e Repubblicani, ma anche i minori) deve selezionare il candidato alla presidenza, nel lungo processo che porta, Stato per Stato, alla nomination (candidatura); nessuno, neppure il presidente uscente che intenda ricandidarsi, ne è esente, tanto che in più d’una occasione (cinque, dal dopoguerra) si è dato il caso di un presidente uscente seriamente sfidato (a volte persino battuto) per la nomination del proprio partito.
Non è questo il caso: Barack Obama non ha seri sfidanti, e, in molti Stati (a cominciare proprio dall’Iowa) corre per caucus e primarie come unico concorrente democratico. Scontata, dunque, la ricandidatura di Obama, tutte le attenzioni dei media si concentrano su chi sarà il suo sfidante.
Tra i ghiacci del granaio d’America (l’Iowa) come tra quelli del New Hampshire, si giocano i primi (e per ciò stesso tra i più importanti) appuntamenti per la corsa alla candidatura. Stati rurali, lontani dai luminescenti grattacieli di Times Square, dalla ipertecnologica Silicon Valley, o dalle affollate spiagge di Miami. Stati in cui entrano in gioco anime d’America meno conosciute, con i candidati che, per centrare i loro obiettivi elettorali, si cimentano, ad esempio, con la frittura del mais (è successo a Kerry in Iowa) o con le slitte sulla neve (Estes Kefauver, senatore del Tennessee, battè palmo a palmo il New Hampshire in slitta, nel 1952, sconfiggendo il presidente Truman, che lo sottovalutò, e che, a causa di quella sconfitta fu costretto a ritirarsi); aspetti, se vogliamo, un po’ romantici, ma che certamente accrescono il fascino della corsa presidenziale.
Passiamo all’analisi del voto repubblicano in Iowa; i risultati anzitutto: dopo un testa a testa durato fino a tarda notte (la proclamazione è avvenuta all’1.40 locali, le 8.40 italiane), in quello che è stato il caucus più incerto della storia, il miliardario mormone, ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, ha battuto, per soli otto voti su un totale di quasi 125.000, il cattolico conservatore, ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, italo americano. I due, appaiati al 25%, hanno preceduto, nell’ordine: il deputato texano Ron Paul, “battitore libero”, con idee spesso eterodosse ed esponente del movimento libertario, che ha raccolto il 21%; l’ex speaker della Camera, Newt Gingrich, favorito fino a poche settimane fa, e crollato al 13%; ancora, il governatore del Texas Rick Perry, fermo al 10%; la “pasionaria” dei Tea Party, Michele Bachmann, deputata del Minnesota, che, racimolato nel suo Stato di nascita un deludentissimo 5%, ha deciso di ritirarsi dalla sfida
Nei sondaggi su caucus e primarie, ad affiancare il favorito Romney, si sono man mano affacciati, con improvvise fiammate, seguite da altrettanto repentine ritirate, vari candidati, da Sarah Palin alla Bachmann, da Perry al businessman georgiano Herman Cain, ritiratosi in novembre; da Gingrich alla fiammata di Paul, peraltro solo in Iowa, a partire da Natale. Nessuno però, fino a Capodanno avrebbe scommesso un cent su Santorum, vera sorpresa del voto, che ha ottenuto questo risultato, quasi senza organizzazione e con pochissimi fondi a disposizione: non c’era, fino a una settimana fa, sondaggio che gli attribuisse neppure il 5%, in nessuno Stato.
Il fatto che accanto a Romney si affacciassero man mano nuovi candidati, era segno che il miliardario mormone, pur godendo dell’appoggio dell’establishment repubblicano (si sono schierati per lui da Bush Padre a McCain) non è molto amato nella base del partito, per due ragioni: la sua fede, pesante handicap presso la grossa fetta di evangelici che costituiscono buona parte della base repubblicana; la sua riforma sanitaria, all’epoca in cui era governatore in Massachusetts, che ha fatto da apripista all’odiatissima (dai Repubblicani) riforma Obama, cosa che gli ha alienato le simpatie di un’altra fetta importante di Repubblicani (gli anti tasse).
Già quattro anni fa, Romney non andò oltre il 25% in Iowa, nettamente battuto dal pastore battista Mike Huckabee, che incassò gran parte dei voti evangelici; i quali evangelici, pur di non votare un mormone, peraltro oscillante sul tema dell’aborto, si sono in buona parte trasferiti, in quest’occasione, sul cattolico conservatore Santorum; gli anti tasse, ripudiata la Bachmann, si sono riversati in massa su Ron Paul, il quale raddoppia, passando in quattro anni dal 10 al 21%.
La battaglia per la candidatura si gioca, dunque, tra Romney, e Santorum, ma occhio a Paul, che pur avendo come (quasi) unico obiettivo l’Iowa, e qualche altra affermazione, ma senza velleità di vittoria finale, ha fatto breccia tra gli elettori indipendenti (i non Repubblicani), i giovani, e nell’unica realtà urbana (peraltro medio piccola) dello Stato (la capitale Des Moines), settori di elettorato (indipendenti, giovani e città) che potranno regalargli altri importanti risultati in giro per gli States. Nessuna chance, invece, per gli altri candidati, neppure per Gingrich, che pure continua a risultare in testa in Stati chiave, quali South Carolina o Florida, che terranno anch’essi a breve le primarie: i sondaggi, infatti, che lo danno vincente in quei due Stati sono precedenti al crollo in Iowa; è pertanto da prevedere che il suo declino si ripercuoterà anche sui prossimi appuntamenti elettorali.
Perché così funziona la corsa presidenziale: battere le mille strade d’America in campagna elettorale costa e richiede pertanto fondi (tanti) per mandare avanti la macchina elettorale; alle prime sconfitte, i finanziatori vengono meno, mentre, in caso di vittoria, accorrono numerosi intendendo investire sul probabile vincitore. A questo servono i primi appuntamenti elettorali: non tanto a predire il vincitore, anche se spesso azzeccano, ma piuttosto a sgombrare il campo dai “pesi morti”, i signori zerovirgola, in lizza per il gusto di partecipare, ma senza possibilità di vittoria.
Romney è certo di aggiudicarsi la vittoria in New Hampshire e in modo netto; se l’ex governatore del Massachusetts si fosse aggiudicato senza problemi anche l’Iowa, la corsa per la nomination si sarebbe chiusa oggi: Romney, cioè, avrebbe scavato un fossato non più colmabile tra sé e gli avversari, costruendo quel “momentum” (fase favorevole nelle primarie) che l’avrebbe portato ad essere percepito, in breve tempo, come il candidato inevitabile.
Ma sulla ruota di Des Moines è uscito quel risultato che potrebbe metterlo in difficoltà nel prosieguo della corsa: oltre al New Hampshire, Romney ha buone possibilità di aggiudicarsi il Nevada, in cui pesa il voto mormone; ma al Sud?
Se Santorum, galvanizzato dalla incredibile rimonta in Iowa, dovesse moltiplicare i suoi consensi nei prossimi appuntamenti, sarà lui a costruire il “momentum”, e a poter addirittura sognare una candidatura che fino all’altroieri nessuno avrebbe pronosticato.

 

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