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Crisi e crimine: aumenta la paura

di Carlo Buttaroni

E se l’insicurezza dei cittadini non avesse niente a che fare con la criminalità? Le statistiche ufficiali suggeriscono, in fondo, questa riflessione. Non c’è evidenza di una crescita dei reati che spieghi l’aumento della paura, delle ansie, delle incertezze. Piuttosto l’insicurezza dei cittadini sembra accompagnarsi al declino delle “società assicuranti” fondate sul diritto di pienezza della cittadinanza e sul riconoscimento politico delle istanze sociali.
Il Ministro dell’Interno, Rosanna Cancellieri, dopo le ultime vicende criminali di Roma, ha parlato di un clima che fa temere un’escalation criminale, alimentato dalla crisi economica. Parole che ricollocano la sicurezza sul piano della politica. E dopo gli anni delle ronde verdi, dell’esercito per strada, della tolleranza zero, di proclami fantasiosi come quello di sparare ai barconi carichi di clandestini, è un cambio di direzione non da poco.
Ci voleva un “tecnico” per rilanciare il tema della sicurezza recuperandone la valenza politica. Mentre per anni si è fatto esattamente l’opposto, alimentando inquietudini e timori con proclami che di politico avevano ben poco. Vedremo nei prossimi mesi se i buoni propositi del governo saranno accompagnati da buone pratiche. Nel frattempo, però, l’approccio e le parole sono quelle giuste.
La rinnovata attenzione alle cause che danno corpo alla sensazione d’insicurezza che avvolge i cittadini, rovescia la logica che ha prevalso in questi anni: una rappresentazione noir della quotidianità, una scena del crimine allestita al centro dei salotti televisivi, con plastici che facevano spiare i telespettatori dal buco della serratura, nell’apparente pretesa di ricostruire le ragioni di tanta efferatezza.
Altro che politiche per la sicurezza, in questi anni si sono fatte politiche per la “paura”. Sono stati alimentati istinti oscuri facendo crescere la diffidenza verso l’altro e verso il diverso. Si è dato corpo ad atmosfere cupe nelle quali predominavano gli spazi grigi e la notte della coscienza. Era inevitabile che alla fine ci si sentisse abbandonati e indifesi, immersi in un mondo ostile, in un habitat malinconico dove si muovevano figure inquietanti e si compievano delitti senza alcuna motivazione, in un continuo superamento dei limiti morali.
Mentre il mondo giovanile, pur attraversato da nuove forme di coinvolgimento sociale e di partecipazione civile, è sembrato lacerato da gesti di esasperata esaltazione e da macabri rituali di devastazione.
Una rappresentazione che ha generato una crisi di fiducia verso il futuro e verso il prossimo, specialmente se diverso per cultura, status sociale, etnia. Una dinamica che ha alimentando ansie che hanno prima preso la forma del sospetto, poi della chiusura, infine dell’ostilità.

Persino classi sociali un tempo “al sicuro”, come alcuni settori della classe media, oggi agitano la paura del crimine per denunciare un crescente senso d’incertezza riguardante la propria posizione sociale. Perché alla paura del crimine si associa la paura del fallimento, l’esperienza di chi si sente particolarmente vulnerabile, a causa della precarietà della sua posizione sociale.
La “paura del crimine” racchiude i rischi che riguardano sicuramente anche il pericolo reale della criminalità, ma che può essere compresa solo nei termini di un insieme di preoccupazioni politiche, economiche, culturali e sociali: la perdita della propria identità, le incertezze per il lavoro e l’abitazione, la precaria definizione dello status personale e del mondo simbolico, la perdita delle virtù civiche, i timori per la situazione economica.
La paura del crimine diventa espressione di “voci” che spesso si riferiscono a tutt’altre ansie, spesso legate a una nuova dimensione e a un nuovo orientamento dei rischi sociali.

La caduta di fiducia nelle capacità nello Stato di dare risposte ai bisogni e alle ansie dei cittadini attraverso politiche di regolazione economica, ha alimentato la percezione sociale dei rischi, dando corpo a nuove paure che si sono sommate alle vecchie.
Paure che si nutrono di racconti sulla “underclass”, sulla colonizzazione dello spazio pubblico da parte delle bande giovanili e degli immigrati, sul “nemico interno” o, come dicono i sociologi, sull‘“altro urbano”. Una narrativa che prefigura il chiudersi in un “privato” protetto da guardie, antifurti, porte blindate.
Risposte inadeguate ad ansie generate da insicurezze diffuse, che si muovono in spazi urbani dove accadono fatti sfuggenti alla classificazione tradizionale di reato, come gli atti vandalici, l’incuria, la maleducazione, la mancanza di rispetto verso il bene comune.
Il grado d’integrazione, di forza dei legami sociali, di fiducia condivisa, rappresentano ancora oggi, nella società globalizzata, leve importanti, necessarie ma non sufficienti, da sole, a dare risposte alla “crisi di sicurezza” che avvolge la nostra società. Leve destinate, oltretutto, inevitabilmente a indebolirsi sotto la forza centrifuga della crisi che spinge l’individuo a isolarsi dal contesto sociale in cui vive.
Quali risposte dare alla crisi di sicurezza?
Sarebbe insufficiente (e improponibile dal punto di vista economico) percorrere la strada di aumentare la presenza delle Forze dell’Ordine sul territorio. D’altronde, oggi, l’Italia si colloca ai primi posti nel mondo per quanto riguarda il rapporto fra numero di poliziotti (compresi Carabinieri e Guardia di Finanza) e numero di abitanti, prima della Germania, della Francia, dell’Inghilterra e della Spagna. Eppure il sentimento d’insicurezza, nel nostro Paese, ha raggiunto livelli elevatissimi.
Occorre, invece, che le politiche per la sicurezza si sposino alle politiche sociali e sviluppino una nuova sintassi, legata più a strategie di recupero delle reti informali di solidarietà. Servono, cioè, politiche pubbliche capaci di dare forza al capitale sociale del Paese, sviluppando un sistema di sicurezza che non sia solo prevenzione nei confronti del crimine ma di accompagnamento e sostegno di fronte alle incertezze della vita e di garanzie che siano una risposta alla precarietà del futuro.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 9 gennaio

 

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