“L’inefficienza della giustizia civile è pari all’1% del Pil” | T-Mag | il magazine di Tecnè

“L’inefficienza della giustizia civile è pari all’1% del Pil”

Il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha illustrato martedì alla Camera la relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2011. Il ministro ha ammesso come il sistema italiano presenti un deficit di efficienza che però “nessuno di noi può permettersi di considerare ineluttabile” in un momento in cui “ogni settore della vita pubblica è tenuto a garantire il proprio contributo operativo al miglioramento delle condizioni economiche del Paese”.
Il ministro Severino ha così elencato le quattro principali emergenze:

a) l’attuale stato delle carceri e le problematiche condizioni dei 66.897 detenutiche, salvo poche virtuose eccezioni, soffrono modalità di custodia francamente inaccettabili per un Paese come l’Italia;

b) il deficit di efficienza degli uffici giudiziari rispetto ad una domanda di giustizia che, in termini quantitativi, appare nettamente sovradimensionata nel confronto con le altre democrazie occidentali (il rapporto CEPEJ 2010 ci dice che, nel civile, con 4.768 contenziosi ogni 100.000 abitanti, l’Italia è al quarto posto in Europa per tasso di litigiosità, dietro Russia, Belgio e Lituania su 38 paesi censiti). Anche su questo ci si dovrebbe forse interrogare maggiormente: questo elevato tasso di litigiosità da cosa deriva? Da una propensione socio-culturale italiana alla conflittualità? Da una scarsa fiducia nella possibilità di affrontare a monte la controversia e di trovare soluzioni ragionevoli nel dialogo tra cittadini? Da una eccessiva complessità del tessuto normativo, tale da generare essa stessa un proliferare di contrasti interpretativi, la cui soluzione va devoluta al giudice? Ognuna di queste domande richiederebbe una approfondita analisi, perché la risposta ad esse potrebbe segnare un cambiamento di politica legislativa, volto ad incidere sulle cause di una domanda di giustizia così diffusa;

c) la problematica individuazione degli strumenti attraverso i quali, soprattutto nel settore civile, sia possibile procedere alla rapida eliminazione dell’arretrato accumulatosi negli ultimi trent’anni, senza stravolgere i nostri principi fondamentali, senza deludere le aspettative di quanti hanno già da tempo intrapreso il cammino processuale e senza limitare eccessivamente l’accesso del cittadino al sistema giudiziario per nuove istanze;

d) l’indifferibile razionalizzazione organizzativa e tecnologica dell’intera struttura amministrativa dei servizi giudiziari, in modo da utilizzare al meglio le risorse umane e finanziarie disponibili, realizzando risparmi di spesa che siano il frutto di interventi strutturali e non di semplici tagli alle dotazioni di bilancio. Vedete, in questi primissimi mesi di Governo mi sono resa conto di come i risparmi più razionali si potrebbero realizzare anche sulle spese “minori”, sol che si modificasse l’erronea attitudine mentale a pensare che il denaro e le risorse pubbliche siano “di nessuno”, convertendola nella corretta concezione che il denaro pubblico è “di noi tutti”, perché proviene dalle nostre tasse, dalla nostra fatica quotidiana, dal nostro lavoro, dal nostro impegno per contribuire alla crescita del Paese. Allora vedremmo come dalla somma dei piccoli-grandi sprechi e dalla loro eliminazione si potrebbe ottenere un ammontare molto più rilevante di quanto si pensi, ma soprattutto un cambiamento culturale, idoneo a garantire risparmi di spesa strutturali e non episodici.

“Il quadro generale è, infatti, rappresentativo di una situazione che desta forti preoccupazioni sia in ordine all’enorme mole dell’arretrato da smaltire che, al 30 giugno del 2011, è pari a quasi 9 milioni di processi (5,5 milioni per il civile e 3,4 milioni per il penale), sia con riferimento ai tempi medi di definizione che nel civile sono pari a 7 anni e tre mesi (2.645 giorni) e nel penale a 4 anni e nove mesi (1.753 giorni).
Peraltro nel settore civile l’inefficienza nella definizione dell’arretrato ha dato luogo a costose e talvolta paradossali conseguenze.
Si è già detto che il ritardo nella definizione dei giudizi dipende, in larga misura, dal numero davvero esorbitante di questioni per le quali si richiede l’intervento del giudice. Con oltre 2,8 milioni di nuove cause in ingresso in primo grado l’Italia è seconda soltanto alla Russia nella speciale classifica stilata nel citato rapporto CEPEJ.
Ebbene, proprio questo fenomeno determina un ulteriore intasamento del sistema conseguente al numero progressivamente crescente di cause intraprese dai cittadini per ottenere un indennizzo conseguente alla ritardata giustizia.
Al riguardo i numeri non ammettono equivoci.
Approvata la legge (n. 89 del 2001 a tutti nota come legge Pinto) che consente di indennizzare l’irragionevole durata del processo si è verificata una vera e propria esplosione di questo contenzioso passato dalle 3.580 richieste del 2003 alle 49.596 del 2010.
Un secondo effetto negativo indotto da tale contenzioso è quello dell’ulteriore dilatazione dei tempi di definizione dei giudizi presso le Corti di Appello (cui è assegnata la competenza a decidere nella specifica materia) che si aggiunge all’entità ormai stratosferica e sempre crescente degli indennizzi liquidati (si è passati dai 5 milioni di euro del 2003, ai 40 del 2008 per giungere ai circa 84 del 2011).

Il dato di maggiore rilievo mi pare, però, quello fornito nel 2011 dalla Banca d’Italia, secondo cui l’inefficienza della giustizia civile italiana può essere misurata in termini economici come pari all’1% del PIL.
Se a questo si aggiunge che nella categoria “Enforcing Contracts” del rapporto Doing Business 2010 l’Italia si classifica al 157° posto su 183 paesi censiti, con una durata stimata per il recupero del credito commerciale pari a 1210 giorni, mentre in Germania ne bastano 394, si coglie la misura di quanto ciò incida negativamente sulle nostre imprese segnando, anche sotto tale aspetto, una divaricazione di efficienza con i migliori sistemi dei Paesi dell’Unione Europea che frena, ineluttabilmente, le possibilità di sviluppo ed anche gli investimenti stranieri.
Ho parlato, naturalmente, di quest’ultimo tema in diverse occasioni con il Presidente Monti e con l’intero Governo, traendone la comune convinzione che le interazioni tra economia e giustizia sono fortissime, che se si vogliono attrarre capitali in Italia sia necessario garantire certezza ed efficienza della giustizia, che se si vogliono accrescere le iniziative imprenditoriali italiane e straniere nel nostro Paese, sia indispensabile assicurare un percorso celere del processo.
Dunque, restituire efficienza alla giustizia civile per recuperare questa ricchezza e la competitività che ne deriva è il vero obiettivo che dobbiamo perseguire, perché ciò consentirebbe di trasformare le criticità del sistema giudiziario italiano in opportunità di sviluppo e di crescita economica, ben oltre i semplici (e pur necessari) risparmi di spesa.

Non meno rilevanti risultano le conseguenze dell’eccessiva durata del processo penale.
E non inganni la circostanza che la durata media del processo penale è inferiore rispetto a quella del processo civile (4,9 anni rispetto agli oltre 7 del civile) poiché occorre tener conto che essa incide in modo sensibile anche sulla sorte degli oltre 28.000 detenuti in attesa di giudizio, che rappresentano il 42% dell’intera popolazione carceraria (altra anomalia tutta italiana).
E se è vero che la libertà personale può e deve essere limitata per tutelare la collettività è parimenti incontestabile che una dilatazione eccessiva della durata del processo a carico di imputati o indagati detenuti pregiudica questo delicato equilibrio tra valori di rango costituzionale ed aumenta, talvolta in modo intollerabile, la sofferenza di chi, ad onta della presunzione di innocenza, è costretto ad attendere, da recluso, una sentenza che ne accerti le responsabilità. Con la possibilità, non del tutto remota, che alla carcerazione preventiva segua una sentenza assolutoria.
Sulla necessità che la delicata e complessa valutazione delle esigenze cautelari sia improntata a criteri di estrema prudenza condivido le preoccupazioni pubblicamente manifestate dal primo presidente della Corte di Cassazione.

La durata del processo penale incide, infatti, anche sul numero dei procedimenti (in media 2369 ogni anno) per ingiusta detenzione ed errore giudiziario e, in ogni caso, aggrava la misura dei pur doverosi risarcimenti a tale titolo erogati (nel solo 2011, lo Stato ha subito un esborso pari ad oltre 46 milioni di euro).
Se mi è consentita una digressione, senza alcun intento polemico, credo che i dati oggettivi che ho appena illustrato consentano di riflettere sull’effettività del sacrosanto principio di civiltà giuridica sancito dal terzo comma dell’art. 275 del codice di procedura penale secondo cui “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata”.
Quel che è certo è che un uso, per così dire, meglio calibrato della custodia cautelare in carcere sarebbe sotto più aspetti benefico per l’amministrazione giudiziaria e per il sistema carcerario, senza alcuna controindicazione per la collettività, se è vero che le esigenze di sicurezza possono essere alternativamente garantite da un ventaglio davvero ricco di opzioni di cui oggi il giudice dispone e che, se possibile, proveremo a migliorare ed incrementare.

Detto questo, ho già manifestato in più occasioni la mia personale preoccupazione, anzi, la mia angoscia per lo stato delle carceri italiane e degli ospedali psichiatrici giudiziari e sento fortissima, insieme a tutto il Governo, la necessità di agire in via prioritaria e senza tentennamenti per garantire un concreto miglioramento delle condizioni dei detenuti (ma anche degli agenti della polizia penitenziaria che negli stessi luoghi ne condividono la realtà e, spesso, le sofferenze).
Si tratta, ancora una volta, di questioni di difficile soluzione a causa di complicazioni burocratiche e di difetti strutturali e logistici che si sono stratificati nel corso del tempo.
Non intendo, però, soffermarmi sul numero e la composizione della popolazione carceraria, sulla vetustà e le condizioni delle strutture, sugli spazi che competono e su quelli effettivamente assegnati e su tutte le altre questioni fatte di freddi dati e numeri (che facilmente troverete nei documenti ufficiali).
Tutto questo, infatti, dice poco della vera questione in ballo: siamo di fronte ad una emergenza che rischia di travolgere il senso stesso della nostra civiltà giuridica, poiché il detenuto è privato delle libertà soltanto per scontare la sua pena e non può essergli negata la sua dignità di persona umana.
Le innegabili difficoltà non possono costituire un alibi né per il Ministro della Giustizia né per tutte le altre istituzioni interessate.
Qualunque giustificazione è infatti destinata a crollare miseramente non appena si varca la soglia di una delle strutture a rischio e si verifica personalmente la realtà.
Lo dico da Ministro, ma anche e soprattutto da cittadino: questa situazione va migliorata subito, pur nella piena consapevolezza che non esista alcuna formula magica per risolvere questo annoso e doloroso problema, se è vero, come è vero, che anche in altri paesi la piaga del sovraffollamento carcerario è segnalata da numeri che parlano da soli (ad esempio: 80.000 detenuti nel Regno Unito e più di 2 milioni negli Stati Uniti).
Solo un equilibrato insieme di misure, idonee a coniugare sicurezza sociale e trattamento umanitariamente adeguato del custodito o del condannato, potrà fornire un serio contributo alla soluzione del problema. Edificazione di nuove carceri, ma anche manutenzione e migliore utilizzo di quelle esistenti; misure alternative alla detenzione, ma anche lavoro carcerario; deflazione giudiziaria attraverso depenalizzazione di reati bagatellari e non punibilità per irrilevanza del fatto, ma anche effettività della pena. Sono solo alcuni esempi che dimostrano come il campionario delle possibili soluzioni sia molto ampio, ma che l’aspetto più difficile è quello di un corretto equilibrio tra aspetto afflittivo ed aspetto rieducativo della pena, tra carattere umanitario del trattamento del condannato e tutela del diritto dei cittadini alla sicurezza, tra riconoscimento dei più elementari principi di civiltà anche a chi è detenuto e pieno soddisfacimento dei diritti delle vittime e dei loro familiari.
Si tratta di una strada lunga e complessa, ma che va affrontata con la massima urgenza privilegiando – anche in considerazione della durata limitata di questo Governo – gli aspetti maggiormente connotati dall’emergenza.
Il Governo ha già adottato provvedimenti finalizzati a questo obiettivo.
Mi riferisco anzitutto al decreto legge 22 dicembre 2011, n. 211, con il quale si è prevista una prima serie di misure urgenti per il contrasto al sovraffollamento delle carceri.
Ciò che si poteva fare con immediatezza è stato fatto, introducendo norme che modificano le procedure di convalida dell’arresto, dimezzandone i tempi massimi (48 ore anziché 96) ed incidendo sulle correlative modalità di custodia in modo da limitare al massimo il transito in carcere destinato, statisticamente, a durare per poco tempo (nel 2010, 21.093 persone sono state trattenute in carcere per un massimo di 3 giorni).
La bontà di questa misura si apprezza anche se si considera che una permanenza così breve in carcere, oltre a rivelarsi inutilmente afflittiva, molto costosa ed impegnativa per l’amministrazione, non è giustificata né da esigenze processuali nè da istanze di difesa sociale, giacché si tratta di persone delle quali, all’esito della convalida dell’arresto e del giudizio direttissimo, il giudice molto spesso dispone la scarcerazione.
Si è altresì deciso di innalzare da 12 a 18 mesi la soglia della pena detentiva residua per l’accesso alla detenzione domiciliare, potenziando uno strumento già introdotto nel 2010 dal precedente esecutivo.
Per effetto di tale modifica, il numero dei detenuti che potranno essere ammessi alla detenzione domiciliare, in base alla legge del 2010, potrà quasi raddoppiare; agli oltre 3.800 detenuti sino ad oggi effettivamente scarcerati se ne potranno aggiungere altri 3.327 (con un risparmio di spesa pari a 375.318 Euro ogni giorno).
Con il successivo decreto legge 29 dicembre 2011, n. 216 si sono operati importanti interventi di miglioramento del “Piano Carceri” approvato dal precedente esecutivo.
Si è infatti reso necessario disporre la proroga della gestione commissariale del piano straordinario sino al 31.12.2012, mentre le nuove norme hanno altresì consentito di superare le criticità del previgente impianto normativo, attraverso la disgiunzione delle funzioni di Commissario Straordinario da quelle di Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
Nella sostanza, si è ritenuto utile separare la gestione del piano straordinario per l’edilizia penitenziaria affidando il ruolo di Commissario ad una figura professionale in grado di esercitare in via esclusiva queste funzioni.

Infine, il 16 dicembre 2011 il Governo ha approvato, in via preliminare, una modifica al Regolamento penitenziario per introdurre la carta diritti e doveri dei detenuti e degli internati, già trasmessa al Consiglio di Stato per il prescritto parere.
La nuova carta fornirà al detenuto, al momento del suo ingresso in carcere, e ai suoi familiari, una guida, in diverse lingue, che indica in forma chiara le regole generali del trattamento penitenziario, e fornisce tutte le informazioni indispensabili su servizi, strutture, orari e modalità di colloqui, corrispondenza, doveri di comportamento, ecc.
Si tratta, come si vede, di un primo gruppo di interventi sostenuti dall’urgenza, cui va aggiunta una più ampia e complessa opera di riorganizzazione e razionalizzazione della struttura ministeriale finalizzata a migliorare le condizioni della detenzione, anche attraverso una intensa attività di riqualificazione della spesa.
Su tutto questo, vi garantisco, On. Deputati, il mio personale impegno e quello dell’intero Governo”.

(continua a leggere la relazione sull’amministrazione della Giustizia nell’anno 2011)

 

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