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Social media. Se la censura aiuta gli affari

di Fabio Ferri

E chiudono Megaupload. E Google cambia le regole per la privacy. E Twitter censura i cinesi. E la Cia ci spia… E stiamo parlando comunque, nella maggior parte dei casi, di aziende per cui il Santo Graal consiste nel Roi, al di là degli annunci di buone intenzioni. Di cui il più chiaro, per la sua vaghezza, è quello di Big G: “don’t be evil”, cioè non fare del (generico) male. Che può andare dal non gettar cartacce a terra a non rivelare dati sensibili. Ma poi questa ultima ipotesi è un male, in senso assoluto? In caso di reati pedo-pornografici è legittimo rivelare dati sensibili degli utenti? Ma, si dirà, non si parla di questo: ed infatti qui di censura non si tratta. È piuttosto corretto dire che non si vuole il controllo della rete. Soprattutto in quei Paesi in cui mancano, o sono fortemente a rischio, le libertà civili e la democrazia. Paesi coma la Cina in cui gli oppositori al PPC vengono sbattuti in galera senza tanti riguardi. La “primavera araba” allora funge da esempio positivo di cosa rappresenti la rete, che dovrebbe essere contemporaneamente portatrice di democrazia di default ma neutra, rispetto ai regimi autoritari. Se fosse una persona soffrirebbe di disturbo bi-polare, con buona pace per la net neutrality. La rivoluzione, dei social media, araba. Questo lo spartiacque. Allora sarebbe opportuno anche dire che si i social media, su tutti Twitter, hanno giocato un ruolo importante, ma che un cinguettio non fa primavera. Che la vecchia (fatta da under 35) Al Jazeera ha avuto un ruolo altrettanto importante: citando, intervistando e dando credibilità facendo conoscere ad un pubblico più ampio, popolare, i blogger anti-regime. Allo stesso modo ricercatori della Columbia University hanno evidenziato il rapporto tra proteste di piazza e censura della rete. Le manifestazioni di strada erano favorite dall’oscuramento di Twitter e Facebook. La spiegazione è semplice, dal momento che non si ha la possibilità di conoscere cosa accade attraverso i mezzi di comunicazione, tv e radio di regime e web oscurato, l’unico modo è uscire di casa. Così si favorisce la comunicazione face to face, si raggruppano molte persone in spazi aperti e condivisi, recuperando l’agorà, e provocando una repressione fisica. Che innesca altre proteste. Ma veniamo al titolo.
Oggi si discute del fatto che Twitter possa cancellare, previa richiesta, alcune pagine dai profili cinesi, non permettendo ai cittadini della Repubblica Popolare di accedere ai suoi servizi. La Cina non è famosa per la sua libertà, e in passato aveva già fatto capire a giganti dal calibro di Google qual era la sua politica riguardo all’uso di internet. Ma nel 2009 l’ex Celeste Impero aveva bloccato Twitter. Negando alla società un mercato di 485 milioni di utenti. Oltre la muraglia però prosperano altri social network, come Weibo (http://www.weibo.com/). Magari un po’ più pop e frivolo ed allineato alla visione restrittiva dei vertici del Partito. E quindi troppo in vista per chi volesse attaccare sulla rete il regime. Ma non di solo Twitter vive il rivoluzionario, soprattutto se cyber. Solo un paio di nomi, conosciuti ed usati anche in Italia per la protesta anti-(consumo)-Twitter: Status (http://status.net/), Identi.ca (http://identi.ca/) e Diaspora (https://joindiaspora.com/). Altra roba rispetto ai comuni, quasi volgari oramai Facebook e Twitter. Altro modello soprattutto: open, non solo free, e decentralizzato. In cui l’utente ha valore non solo come prodotto da vendere ai markettari, ma anche come nodo della rete e rimane proprietario dei propri dati. Non è forse una rivoluzione politica questa, ma potrebbe rappresentare un paradigma relazionale diverso. Aprendo la strada ad una nuova famiglia di social media, economicamente guidati da altri presupposti: non solo combattuti tra la crescita e la libertà. A proposito, qualcuno sa cosa stia succedendo in Iran?

 

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