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La lectio magistralis di Giorgio Napolitano all’Università di Bologna

Proponiamo di seguito il testo della lectio magistralis di Napolitano all'Università di Bologna, dove ha ottenuto la laurea honoris causa in Relazioni internazionali

Non è certo formale l’espressione della mia riconoscenza per il titolo conferitomi attraverso questa solenne e calorosa cerimonia. Potrei parlarne come di una promozione, da praticante a scienziato della politica. Promozione simbolica, s’intende, a scienziato solo onorario, ma altamente gratificante innanzitutto per la sua provenienza : da due Facoltà che sono tra i più giovani virgulti di una maestosa pianta plurisecolare, qual è l’Alma Mater Studiorum di Bologna.

La nascita della vostra università e successivamente di altre, come quelle di Parigi e di Oxford, segnò, tra i secoli Undecimo e Tredicesimo, quel “tempo delle città”, fu parte di quella “rivoluzione cittadina”, che a giudizio di storici importanti rappresentò “il vero spartiacque” per la genesi della civiltà europea. E’ il senso di questa comune origine e tradizione che si respira qui, come alla Sorbonne e ad Oxford, dove sono stato accolto in non casuale coincidenza con le celebrazioni del Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, e dove ho raccolto significativi omaggi al nostro paese, in un genuino spirito di appartenenza e solidarietà europea. E’ stato per me motivo di emozione, come potete comprendere, sentire a Parigi evocare l’Italia come “fonte della cultura latina, cristiana, rinascimentale, moderna” e l’Università di Bologna come “sorella maggiore” della Sorbonne. O sentire a Oxford esprimere ammirazione per l’Italia – la virgiliana terra di Saturno – per la sua cultura e la sua civiltà, da parte di “noi Oxfordiani che ci dedichiamo da otto secoli allo studio delle storie italiche e dei trionfi dei Romani”.

Nacquero, la vostra e le altre prime Università in Europa, come istituzioni cosmopolitiche e più che mai come tali esse sono chiamate oggi a operare, e a compenetrarsi tra loro, nell’era della globalizzazione in cui siamo ormai immersi.

Una visione ampia, europea, non provinciale, deve certamente guidare anche la riflessione sulla politica e lo sviluppo della scienza politica. Tengo distinti i due ambiti, non mi avventuro nel secondo, parlo dunque – ancora una volta – da praticante, portatore di una lunga esperienza personale, che è comunque consapevole del contributo e dello stimolo che vengono da quanti osservano scientificamente i comportamenti politici, il funzionamento e l’evoluzione dei sistemi politici. Tale consapevolezza è importante per elevare il livello della pratica politica ; negli ultimi tempi essa si è venuta piuttosto smarrendo, almeno in Italia, nel quadro di una più generale tendenza al distacco della politica dalla cultura, all’indifferenza verso la cultura. E non occorre sottolineare quanto questa tendenza sia esiziale e come ci si dovrebbe impegnare a superarla.

Giovanni Sartori ci ha insegnato che la nozione di politica si qualifica in rapporto a strutture e istituzioni qualificabili come politiche e a partire da quando queste si definiscono distinguendosi da altre, economiche, religiose e sociali. L’inoltrarsi nel cammino della politica conduce all’impegno nelle istituzioni : questa è stata anche la mia esperienza, dopo essersi, nella fase iniziale, qualificata come scelta di un orizzonte politico-ideale, adesione e partecipazione attiva a un’organizzazione politica, e dunque militanza di parte nelle sue molteplici forme. Imparai presto che il banco di prova della capacità di un’organizzazione politica di perseguire obbiettivi di efficacia generale sta nel suo calarsi nelle logiche e nelle regole delle istituzioni rappresentative.
E dunque, se vogliamo riflettere sulla crisi della politica dobbiamo ragionare contemporaneamente sullo stato delle istituzioni ; e più specificamente dei sistemi politici. Lo dico riferendomi all’Italia ma non soltanto ad essa.

Assistiamo certamente, da qualche tempo, all’appannarsi di determinati moventi dell’impegno politico, inteso come impegno di effettiva e durevole partecipazione. Tra i moventi che si sono affievoliti si può collocare quella che ritengo sia giusto chiamare la forza degli ideali, e la stessa percezione del ruolo insostituibile della politica. Insostituibile in quanto decisivo per la soluzione dei problemi di cambiamento e sviluppo della società, cui si legano i destini individuali e collettivi nel quadro nazionale e internazionale. Ma se tale percezione si è affievolita, insieme con la “forza degli ideali”, è anche per effetto di una perdita di efficacia, persuasività e inclusività del sistema politico. E mi riferisco alle istituzioni rappresentative, ai processi elettorali, ai partiti : una crisi da cui si può uscire solo attraverso riforme in tutti questi campi.

D’altronde ben al di là dell’Italia la politica è in affanno e i sistemi politici sono in tensione. Guardiamoci attorno, nella vasta e varia Europa unita : vedremo in molti paesi fenomeni di disincanto, di distacco dalla politica, di più dubbiosa partecipazione ai confronti elettorali, e anche di indebolimento e di crisi di equilibri politici, di schemi di alleanza tra partiti affini, di modelli di alternanza e di stabilità che per lunghi periodi erano rimasti costanti apparendo ormai consolidati. Hanno fatto il loro ingresso sulla scena politica ed elettorale soggetti nuovi – nella stessa Germania dopo la riunificazione, e in numerosi paesi dell’Europa centrale e settentrionale ; si sono alterati preesistenti rapporti di forza ; in più casi (finanche nel Regno Unito) schemi politici divenuti quasi consuetudini storiche hanno dovuto cedere il passo a soluzioni realisticamente improntate a maggiore duttilità.

C’è da chiedersi quanto, in Europa, le difficoltà, le fibrillazioni della politica e dei sistemi politici, riflettano la sempre più incerta sostenibilità di politiche pubbliche e di relazioni economico-sociali che hanno per lungo tempo garantito livelli elevati di benessere, specie nel quadro della costruzione comunitaria via via allargatasi fino ad abbracciare 15 paesi prima della svolta del 1989. Negli ultimi venti anni il baricentro dello sviluppo mondiale si è radicalmente spostato lontano dall’Europa ; il processo di globalizzazione si è fatto impetuoso, e sempre di più ha visto emergere, grazie a un eccezionale slancio produttivo e competitivo paesi di continenti diversi dal nostro e tra essi degli autentici giganti. Il peso dell’Europa nel suo complesso si è venuto, in termini demografici ed economici, innegabilmente restringendo e tende a restringersi quanto più da parte di noi europei si esiterà a unire le forze, a procedere sulla via dell’integrazione, quanto più singoli Stati membri dell’Unione coltiveranno l’illusione dell’autosufficienza.

Nel corso di questo profondo cambiamento su scala mondiale si è nel 2008 innescata, partendo dagli Stati Uniti, una crisi finanziaria che ha investito anche l’Europa, e che si è, nel 2011, tradotta in una pressione concentrica sull’Eurozona, soprattutto sui debiti sovrani di paesi come l’Italia. Le politiche di bilancio restrittive che è stato quindi, ed è, indispensabile adottare, e insieme il brusco contrarsi delle prospettive di crescita in tutta l’area dell’Eurozona, con ricadute su un’economia mondiale già in difficoltà nel suo complesso, hanno reso più evidenti e stringenti i rischi di insostenibilità degli equilibri economici e sociali consolidatisi in Europa nel passato, alimentando le inquietudini di vasti strati della popolazione, anche se in termini diversi da paese a paese.

Le risposte delle leadership politiche e di governo nazionali si sono fatte più incerte e problematiche ; si è esteso in varie parti d’Europa il fenomeno di reazioni populiste, di aperto rigetto dei vincoli di corresponsabilità e solidarietà europea, di anacronistica difesa di posizioni acquisite e di privilegi corporativi. Non c’è dubbio che tutto questo abbia trovato sbocco nell’affermarsi di nuove formazioni di stampo, appunto, populistico e abbia più in generale eroso antiche basi di fiducia nella politica, nei partiti tradizionali, nelle istituzioni.

Ecco le spinte e le sfide fino a ieri imprevedibili cui deve far fronte la politica democratica in Europa. Questo è lo sfondo entro il quale va collocata anche la visione delle cose italiane.

Io credo che si stiano tuttavia delineando alcuni campi d’intervento decisivi al fine di superare le contraddizioni e le crisi di questa fase cruciale : alcuni campi d’intervento che però richiedono e suggeriscono seri sforzi di riqualificazione culturale e programmatica da parte delle forze politiche eredi della dialettica democratica dispiegatasi validamente per un cinquantennio nell’Europa occidentale. E quei campi d’intervento cui mi riferisco possono segnare il nuovo perimetro entro il quale sono chiamati a competere e collaborare nel prossimo futuro partiti volti a caratterizzarsi per chiara e responsabile vocazione di governo. Senza confondersi e nemmeno allearsi tra loro, questi partiti già oggi si cimentano su grandi problemi comuni : come quelli della definizione di nuove regole capaci di arginare e governare l’area tanto dilatatasi, anche in senso speculativo, della finanza e il potere di condizionamento dei relativi, incontrollati mercati globali. O come quelli della promozione di politiche di sviluppo sostenibile – anche socialmente sostenibile – secondo i principi della libertà d’iniziativa, della libertà degli scambi, del rispetto dei diritti umani e della dignità del lavoro.

Sono temi su cui si misureranno le potenzialità e le responsabilità dell’Europa unita. Essi si collocano nella prospettiva degli sforzi attuali di superamento della crisi dell’Eurozona. E sgorgano dal più generale quadro di valori su cui si è fondata la costruzione europea e che resta sancito dai Trattati dell’Unione Europea. Quanto più esso viene negato o stravolto da forze populiste, neonazionaliste e oscurantiste, tanto più va riaffermato e assunto come spartiacque dai partiti che si candidano a governare democraticamente i paesi della nostra Europa.

E’ nello scenario che ho cercato di tratteggiare che confluiscono oggi le vicende della politica e delle istituzioni in Italia, dopo aver seguito un loro singolare percorso. Nei primi anni ’90 dovemmo uscire – sotto la spinta di un forte movimento di opinione, espressosi anche per via referendaria – da una peculiare condizione di “democrazia bloccata”, sfociata in una crisi, per taluni aspetti traumatica, del sistema dei partiti. Se ne uscì con una riforma in senso maggioritario della legge elettorale, e con un profondo rimescolamento e cambiamento negli schieramenti politici. Prese corpo anche nel nostro paese una democrazia dell’alternanza, che ha garantito un non trascurabile periodo di stabilità politico-governativa : pur in assenza di riforme istituzionali di riconosciuta necessità.

Quel che è accaduto in Italia nell’ultimo anno va in parte ricondotto al quadro europeo che ho richiamato in precedenza : il logoramento di un equilibrio politico che – nonostante il sussidio più rigidamente maggioritario della legge elettorale del 2005 – è stato scosso da contraddizioni interne alla alleanza di governo uscita vincente dalle elezioni, e senz’alcun dubbio dalle prove della crisi finanziaria globale e segnatamente di quella dell’Eurozona e dei debiti sovrani, tra i quali il nostro è risultato il più esposto.

Il logoramento della maggioranza di governo e l’emergenza di un rischio di vero e proprio collasso finanziario pubblico hanno determinato la necessità di ricorrere anche in Italia a soluzioni non rinvenibili entro gli schemi ordinari, evitando un improvvido, precipitoso scioglimento del Parlamento e avviando politiche ormai urgenti di risanamento finanziario e di riforma di non più sostenibili assetti economici e sociali.

Questo è stato il senso della soluzione rappresentata dal formarsi del governo Monti, e dal decisivo pronunciarsi di una larghissima parte del Parlamento a suo sostegno col voto di fiducia. E’ nell’interesse comune che lo sforzo appena intrapreso, con significative proiezioni in sede europea, continui e si sviluppi in un clima costruttivo. Fuori discussione sono le prerogative del Parlamento e le esigenze di un corretto confronto tra governo e forze sociali. Non intervengo nel merito di alcuna questione politicamente o socialmente controversa : metto però in guardia contro la pericolosità di reazioni, a qualsiasi provvedimento legislativo, che vadano ben al di là di richieste di ascolto e confronto e anche di proteste nel rispetto della legalità, per sfociare nel ribellismo e in forzature e violenze inammissibili. E nello stesso tempo voglio sottolineare come il consolidarsi, nei prossimi mesi, in Parlamento e nei rapporti politici, del clima costruttivo già delineatosi risponda all’interesse delle stesse forze politiche, per il superamento della crisi prodottasi nel loro rapporto con la società e con i cittadini.

Importanti a tal fine sono le prove che esse in gran parte hanno dato e stanno dando del loro senso di responsabilità sia cooperando attivamente all’adozione di scelte volte a fronteggiare le emergenze di questa fase critica, sul piano finanziario ed economico, per l’Italia e per l’Europa, sia predisponendosi ad affrontare temi molteplici, più che mai rimessi ai partiti e alle Camere, di riforma delle istituzioni e delle regole parlamentari ed elettorali. Si dovrà verificare in Parlamento anche la possibilità di definire – o di prospettare credibilmente – revisioni di norme della seconda parte della Costituzione, come si riuscì a fare anni fa solo con la riforma del Titolo V in senso più conseguentemente autonomistico.

L’apporto della politica resta dunque decisivo anche dopo la nascita di un governo senza la partecipazione di personalità rappresentative dei partiti. E’ a questi che spetta creare le condizioni per il rilancio di una competizione non lacerante – quando al termine della legislatura gli elettori saranno chiamati alle urne – e per il nuovo avvio di una dialettica di alternanza non più inficiata da una conflittualità paralizzante e non chiusa alle convergenze politiche che le esigenze e l’interesse del paese potranno richiedere.

Il saper aprire questa prospettiva appare oggi condizione essenziale perché i partiti e le istituzioni recuperino quella fiducia che si è venuta tanto indebolendo. E altre condizioni per recuperare fiducia e prestigio stanno in quello sforzo di riqualificazione culturale e programmatica che ho già indicato come necessario in Europa per le maggiori formazioni politiche. Esse stanno – in Italia – nell’abbandono da parte del mondo politico di comportamenti e di posizioni acquisite che hanno alimentato polemiche e reazioni di rifiuto devastanti, così come nella restituzione ai cittadini-elettori della voce che ad essi spetta innanzitutto nella scelta dei loro rappresentanti, e infine nella selezione di candidati a ruoli di rappresentanza istituzionale che presentino i necessari titoli di trasparenza morale e competenza.

Non ho esitato – riflettendo sulle condizioni e sulle sorti della politica – a evocare, o invocare, il ruolo dei partiti. Perché questo nodo è ineludibile, come possono dirci, con adeguato fondamento storico e teorico, gli scienziati – non onorari – della politica. Introducendo il libro di uno studioso del ruolo dei partiti, Sartori ha scritto, qualche tempo fa : “Sono passati ottant’anni” (da un classico saggio inglese del 1921) “e i partiti sono più che mai sotto attacco ; eppure nessuno riesce a dimostrare in maniera seria e convincente come la democrazia rappresentativa potrebbe funzionare senza le cinghie di trasmissione poste in essere dai partiti e dal sistema dei partiti”. Direi che questo è l’argomento estremo e insuperabile.

Non si prenda l’abbaglio di ritenere che la soluzione sia offerta dal miracolo delle nuove tecnologie informatiche, dall’avvento della Rete : questa fornisce soltanto in modo fino a ieri imprevedibile accessi preziosi alla politica, inedite possibilità individuali di espressione e di intervento politico e anche stimoli all’aggregazione e manifestazione di consensi e di dissensi. Ma anche canali da tempo consolidati – come quelli associativi – di educazione e avvicinamento alla politica, pur esercitando su di essa una non trascurabile influenza, non sono apparsi mai sostitutivi dei partiti. Non c’è partecipazione individuale e collettiva efficace alla formazione delle decisioni politiche nelle sedi istituzionali, senza il tramite dei partiti.

I partiti possono – nelle situazioni concrete, nella cornice degli Stati nazionali o anche delle istituzioni europee – conoscere periodi di involuzione e di decadenza, perdendo tra l’altro il senso del limite. Ma la sola strada che resta aperta è quella del loro auto-rinnovarsi. Questo vorrei dire soprattutto ai giovani. Tra il rifiutare i partiti e il rifiutare la politica, l’estraniarsi con disgusto dalla politica, il passo non è lungo : ed è fatale, perché conduce alla fine della democrazia e quindi della libertà.

Dei partiti, come della politica, bisogna avere una visione non demoniaca, ma razionale e realistica. Uno straordinario testimone della cultura e della storia del Novecento, Thomas Mann così scrisse nel 1945, avendo in mente non solo la tragedia tedesca ma forse anche le luci e insieme le ombre della grande democrazia americana da lui osservata per anni da vicino:
“La politica racchiude in sé molta durezza, necessità, amoralità, molte expediency e concessioni alla materia, molti elementi troppo umani e contaminati di volgarità,” (…) “ma non potrà mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare totalmente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura”.

Della nobiltà della politica sono state d’altronde portatrici personalità significative, e non rare, dell’Italia repubblicana. E mi riesce naturale, qui a Bologna, tornare a ricordarne in particolare una, Nino Andreatta. La cito per l’impulso decisivo che egli diede alla configurazione e allo sviluppo della Facoltà di Scienze Politiche di Bologna ; e anche per un aspetto, che il titolo a me oggi conferito, e la sua puntuale motivazione, mi inducono a mettere in evidenza. L’aspetto, cioè, della sensibilità per la dimensione internazionale dell’impegno politico.

Andreatta fu, in tutte le fasi della sua battaglia politica e della sua attività parlamentare e di governo, convinto e sapiente assertore delle scelte di fondo che fin dagli anni ’50 fecero dell’Italia un protagonista non marginale delle relazioni internazionali : la scelta europeista e la scelta atlantica. E io ancor oggi ritengo che decisivo sia stato l’essere via via riusciti, nei decenni passati, a fare di quelle due scelte fondamentali, dapprima contrastate politicamente e ideologicamente, la base condivisa di ogni possibile evoluzione dei rapporti tra forze politiche accomunate da un antico e costante ancoraggio ai principi della Costituzione repubblicana. Riuscirvi non fu facile, richiese coerenza e tenacia, e ringrazio per il riconoscimento che mi è venuto dal Rettore Dionigi, nella sua generosa laudatio, a proposito del contributo da me dato, come esponente politico e parlamentare, nell’arena delle relazioni internazionali.

Ma mi si lasci ricordare l’apporto determinante che nello stesso senso dette una personalità del PCI in Parlamento, il sen. Paolo Bufalini, con la stesura della risoluzione votata a larghissima maggioranza in Senato nell’autunno del 1977, con cui per la prima volta anche il maggior partito della sinistra italiana si riconobbe nelle scelte di fondo dell’impegno europeistico e dell’alleanza NATO.

E’ accaduto che a metà dicembre entrambe quelle personalità, l’una di governo e l’altra di opposizione, Andreatta e Bufalini, siano state unanimemente onorate in due consecutive cerimonie parlamentari. E di Bufalini il professor Dionigi ha in quella occasione illustrato la meno nota, operosa passione per la cultura classica.

Essi appartennero entrambi alla schiera di quei politici umanisti, nel senso più ampio e vitale dell’espressione, su cui l’Italia ha potuto contare e di cui avrà bisogno anche nel futuro.

E dove ci si può formare come tali se non nelle Università che si muovono nel solco della vostra, dell’Alma Mater di Bologna? Accogliete dunque il mio augurio sincero per il nuovo Anno accademico che vi vede impegnati in un ulteriore sforzo di rinnovamento e di apertura all’Europa. Un augurio sincero innanzitutto agli studenti. Ringrazio in particolare, per il suo intervento, il loro rappresentante. Caro Davide, mi ha fatto piacere che tu abbia raccolto le mie parole del messaggio di fine anno, quell’incitamento alla fiducia e alla coesione che ho tratto dalla riflessione sui 150 anni dell’Italia unita e dall’esperienza della partecipazione popolare senza precedenti alle celebrazioni di quella ricorrenza. Mi ha anche fatto piacere sentirti citare, come invito a un’attenzione fiduciosa per quel che la realtà può riservarvi, i versi del poeta che mi fu più caro nei miei primi anni giovanili. Grazie. Buon nuovo Anno a voi tutti.

 

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