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Lavoro. Così il precariato in Europa

di Fabio Germani

“L’emergenza è la precarietà, se la parola riforma ha senso, da qui bisogna partire”. La riflessione domenicale su Twitter della leader della Cgil, Susanna Camusso, non ammette repliche. In vista di un nuovo incontro con le parti sociali (che presumibilmente avverrà giovedì), i sindacati, compattamente, chiedono al governo di estendere la cassa integrazione e di ridurre la precarietà.
Ad oggi la parola “precariato” viene percepita quale spauracchio nel mondo del lavoro, laddove la definizione corretta sarebbe dovuta essere “flessibilità”. Almeno secondo i piani che in origine erano previsti nel pacchetto Treu del 1997 e nella legge Biagi del 2003. Circostanze rese tanto più vere dalla Strategia europea per l’occupazione che mirava a forme contrattuali meno rigide rispetto al passato.
Quello che è mancato al nostro Paese, in verità, è stata un’adeguata revisione della protezione sociale a fronte di una maggiore libertà contrattuale (proprio la Cgil ha calcolato 46 forme e tipologie di contratti esistenti). In questo senso, infatti, andrebbero inquadrate le misure varate dall’esecutivo di Mario Monti. Oltre alla riforma del modello pensionistico che introduce, per tutti, il sistema di calcolo contributivo, una delle priorità allo studio del governo è l’istituzione di nuovi ammortizzatori sociali. A fine 2008, tanto per rendere l’idea, secondo l’Istat i lavoratori atipici raggiungevano quota due milioni e 800 mila. E nel resto d’Europa?
Partiamo da un presupposto, sfatando possibili dicerie al riguardo: l’Italia non è tra i Paesi più precari del Vecchio Continente. La media europea si attesta al 14% e nel 2008 – secondo l’Eurostat – lo Stivale era al 12,8% del totale. In Germania (unico Paese ad avere incrementato l’occupazione nel 2011) i precari raggiungevano il 14,7%, in Francia il 14,9, in Olanda il 18,3, in Portogallo il 23 e in Spagna il 25%. Al contrario in Danimarca e in Gran Bretagna – nonostante sia più frequente il ricorso al licenziamento – il lavoro temporaneo si attestava rispettivamente all’8,6% e al 6%.
Quello che però è avvenuto in Europa e che finora è mancato all’Italia, è stata l’introduzione di un modello di welfare più generoso nei confronti dei lavoratori atipici o dei nuovi disoccupati. In particolare il sistema danese (flexicurity) è considerato tra i migliori (tant’è che nelle ultime settimane la discussione è tornata in auge con la proposta Ichino). La Danimarca, in soldoni, è riuscita nel tempo a garantire da un lato una certa flessibilità (sia in entrata che in uscita) e dall’altro a mantenere intatte le tutele dei lavoratori evitando qualsiasi forma di esclusione sociale.
Un rapporto dell’osservatorio Datagiovani (basato su rilevazioni Istat) ha evidenziato che in Italia gli under 35 rappresentano il 43% dei precari. Tradotto in numeri: sugli attuali tre milioni e 800 mila, i lavoratori atipici sotto i 35 anni sono un milione e 640 mila. Ma sarebbe sbagliato soffermarsi soltanto sui giovani poiché il lavoro precario ha registrato un incremento in tutte le fasce di età.
Al momento, anche se è ancora presto per comprendere i reali effetti delle ultime decisioni in materia, la categoria dei precari che ha visto ipotetici miglioramenti alle proprie condizioni lavorative è quella degli stagisti. Nel 2009 il 14,9% delle imprese italiane è ricorso all’utilizzo di stage e il fenomeno è risultato in costante crescita anche nelle pubbliche amministrazioni. Dello stage, è stato osservato negli anni, si è fatto un uso distorto (brutalizzando il concetto, tante sono le aziende che hanno approfittato dell’opportunità). A tale proposito si è dunque stabilito che la durata dello stage non potrà superare i sei mesi, né potrà svolgersi a distanza di oltre un anno dalla laurea.
Per inciso: al vertice europeo di lunedì è stata affermata la necessità di accelerare sulle riforme strutturali che migliorino la competitività e creino nuovi posti di lavoro. La Commissione europea incentiverà gli otto Paesi in cui la disoccupazione giovanile supera il 30% (tra questi c’è l’Italia) attraverso lo stanziamento di fondi non ancora utilizzati.

 

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