Cambia il mondo. Ma la televisione no
Cambia il mondo, corrono gli anni, si susseguono le generazioni, eppure alcuni fenomeni culturali sembrano essere immuni al passare del tempo, indifferenti ai mutamenti sociali ed economici, sostanzialmente inerti. E’ questo il caso, apparentemente paradossale, di molti format di successo televisivo, annoverabili fra i più grandi exploit degli ultimi anni eppure sempre uguali a loro stessi. In un’epoca di di moltiplicazione dei canali, di tv on demand, di digitale terrestre e personal tv il grande pubblico sembra infatti ancora attratto dalla programmazione mainstream più tradizionale. Un caso esemplare è sicuramente rappresentato da Ballando con le stelle, programma nato nel 2005 e ancora oggi punto di forza della rete ammiraglia della RAI. Il format condotto da Milly Carlucci riprende e unisce infatti i canoni della più classica televisione tradizionale alla formula di maggior successo degli ultimi anni: il reality show. Nella scelta fondante di puntare sul ballo, nella presenza scenica dell’orchestra in studio, nelle coreografie stesse gli autori di Ballando con le stelle recuperano alcune delle caratteristiche essenziali del più tradizionale dei varietà. Elementi già eliminati dai palinsesti delle reti generaliste, in quanto, almeno secondo gli analisti, ormai privi di riscontro sul grande pubblico e che si riscoprono ora invece ancora molto efficaci. Quali sono dunque le motivazioni di questo nuovo e duraturo successo? Da dove trae la sua forza la televisione mainstream?
Rivolgendo questa domanda ai diretti interessati, vip e ballerini di Ballando con le stelle, la risposta appare unanime: dal ballo. La forza empatica della danza, il coinvolgimento emotivo, l’universalità di questa comunicazione fisica quasi primordiale, non viene, almeno secondo i protagonisti, affatto indebolita dalla fruizione mediata che ne hanno gli spettatori. Così come non sembrerebbe pesare, sulla naturalezza e la spontaneità dei gesti atletici, l’elemento di finzione proprio del realty. Pur concordando con queste affermazioni sembra però semplicistico limitare il successo di un fenomeno così duraturo nel tempo con la semplice passione per la danza. C’è dunque un elemento strutturale, proprio del nostro sistema televisivo (e più in generale della nostra società), alla base del successo di Ballando con le stelle. Un sistema che, come troppo spesso accade nel nostro paese, soffre della sostanziale mancanza di un vero mercato. L’attuale configurazione del nostro universo radiotelevisivo infatti, nonostante gli interventi normativi, è ancora drasticamente ingessato nel duopolio RAI/Mediaset, che, per ragioni economiche e strutturali, sembrano perseguire un obiettivo di reciproca stabilità, evitando, di fatto, scomode contese. L’incremento dell’offerta, teoricamente legato al moltiplicarsi dei canali, diventa così, di fatto, puramente teorico. Senza i dovuti investimenti, senza la giusta promozione, senza l’appoggio della grande pubblicità, le centinaia di canali del digitale terrestre rimangono (alla stregua delle tradizionali televisioni locali), nel migliore dei casi, prodotti per piccolissime nicchie. L’assenza di un reale mercato, non si tramuta però semplicemente, per il pubblico, in mancanza di scelta, ma raggiunge anche lo sfuggente obiettivo di standardizzare i gusti dell’audience. In quest’ottica non risulta dunque così fondamentale il tema o i protagonisti dei format quanto la riproposizione ritualizzata di schemi e maschere. Schemi e maschere, come detto, perfettamente distinguibili in un format come Ballando con le stelle. Anche nel programma di RAI1 appare evidente come la televisione ricicli se stessa, i suoi attori (molti delle star del programma provengo già dal piccolo schermo) e le sue strutture, ritrovando davanti agli schermi un pubblico abituato a questo rituale. Se un’aspra critica va dunque mossa, non deve essere diretta verso gli spettatori, spesso privi di una reale alternativa, né verso produttori di questi format, il cui obiettivo è quello di mantenere la loro posizione dominante. La critica più aspra va rivolta piuttosto ai broadcaster, principali artefici di questo non-mercato, comodamente adagiati in questo duopolio non competitivo. Senza un’adeguata apertura del nostro sistema radio-televisivo, non basteranno riforme, leggi o normative, il tempo e le stagioni passeranno e noi continueremo a vedere lo stesso, grande format.