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Per Vladimir Putin non c’è due senza tre

di Antonio Caputo

Con il 64%, elezione (netta) al primo turno senza bisogno di passare dalle “forche caudine” del ballottaggio e terzo mandato (ma non consecutivo) al Cremlino per Vladimir Putin, premier uscente, già presidente per due mandati tra il 2000 ed il 2008 e vero “Zar” della Russia d’inizio millennio. Riuscita, dunque, la staffetta col presiedente uscente Medvedev, che torna premier dopo quattro anni da presidente, in continuità d’azione politica e di governo.
La Costituzione che prevedeva un mandato quadriennale (portato ora a 6 anni) ed il limite di due mandati consecutivi, impediva a Putin di ricandidarsi a presidente nel 2008; quindi, “Zar” Vladimir si issò sulla poltrona di primo ministro, lasciando il Cremlino al “delfino” Medvedev, col quale non è mancato qualche distinguo in questi anni.
Nel settembre 1999 il vecchio presidente (un altro “Zar”), Boris Eltsin, affida a lui (Putin) l’incarico di premier in un momento difficile per il Paese, alle prese con una guerra, durissima, in Cecenia (che si stava trasformando in una sorta di Vietnam russo o, se preferite, in un secondo Afghanistan, dopo la disfatta dell’Armata Rossa nel 1987); con il terrorismo ceceno/islamico che nell’estate 1999 insanguinò, con attentati spaventosi, le principali metropoli russe provocando centinaia di morti; ancora, con una crisi di credibilità delle Istituzioni, che investiva lo stesso Eltsin, già vecchio e malandato, incappato in qualche scandalo finanziario, e più volte sorpreso, anche in pubblico, in condizioni di ubriachezza; con il dominio dell’oligarchia dei nuovi miliardari, che avevano fatto affari d’oro dalla dismissione dell’immenso patrimonio pubblico dell’era sovietica.
Un Paese alla deriva, insomma, che si affida all’Uomo Forte, proveniente dal Kgb per risollevarsi da un declino che sembrava ineluttabile. Ed in questi anni proprio Putin ed il suo sistema di potere, pur a prezzo di una instaurazione di un regime semi autoritario, arresta il declino e cerca di invertire la rotta: chiude, sia pur a prezzo di stragi immani tra la popolazione, la partita cecena, letteralmente per annientamento del nemico; rilancia il mito patriottico russo, anche con richiami all’era sovietica; rilancia le forze armate, prima allo sbando; attua una politica a volte anche spregiudicata sulle risorse energetiche, che fanno diventare Mosca crocevia internazionale strategico per petrolio e gas; tiene fuori per quanto possibile la Russia dalla devastante crisi economica che ha colpito l’Occidente; fa pesare, battendo i pugni, il nuovo ruolo acquisito dalla Russia.
L’excursus storico era necessario per comprendere il perché del successo di Putin che si manifesta nei risultati della scorsa notte: a lui, a scrutinio nono ancora ultimato, il 64% dei voti; oltre il triplo del principale esponente dell’opposizione, Gennadi Zyuganov, comunista ed “eterno” candidato al Cremlino, fermo al 17% racimolato quattro anni fa. Ancora, il 7% all’indipendente Mikhail Prokhorov, magnate delle miniere; solo quarto, con appena il 6%, un altro “eterno” candidato, Vladimir Zhirinovsky, alfiere dell’estrema destra; le briciole agli altri candidati. Fuori gioco l’opposizione filo occidentale (Partito Yabloko), a causa del sistema elettorale, che, con la riforma, impone, per la presentazione della candidatura, la raccolta di ben due milioni di firme: una soglia così alta, da impedire a molti candidati (tra cui proprio quello di Yabloko) la partecipazione.
Putin aveva dalla sua l’immenso apparato di potere, che gli ha garantito una nuova vittoria a valanga, ma oltre a ciò, la sua elezione è stata favorita anche da un’opposizione debole, divisa, e non in grado di costituire un’alternativa credibile.
Le istituzioni internazionali, Ocse in primis, lanciano allarmi ed accuse di irregolarità delle elezioni; lo stesso fa l’opposizione ed in parte è così. Ma le stesse accuse vennero lanciate (oltreché in tante elezioni precedenti, praticamente da quando è iniziata la parabola politica di Putin dodici anni or sono) proprio in occasione del voto del dicembre scorso, quello sì espressione di debolezza per il sistema di potere putiniano.
A parità di brogli, e di condizionamento del voto, Putin guadagna 15 punti in tre mesi, nonostante le manifestazioni di protesta (alcune davvero imponenti) a getto continuo delle opposizioni, che sembravano davvero aver incrinato, per la prima volta, il sistema del Cremlino: l’odierno risultato è segno che una parte del dissenso manifestatasi qualche mese fa è rientrato, ma soprattutto che quando si passa all’elezione diretta di chi dovrà gestire le redini del Paese per i prossimi sei (dodici, in caso di rielezione) anni, l’elettorato si guarda attorno e vede, se deve cambiare, quali sono le alternative in campo.
Costituisce un’alternativa reale l’opposizione moderata? No, per la sua troppa debolezza. Sono alternative reali le altre opposizioni? No, e per fortuna, anche dell’Occidente, che non ama Putin. Un conto, infatti, è trattare con “Zar” Vladimir, tutt’altro sarebbe farlo con gli estremisti: si preferisce tornare al sistema comunista? O si vuol puntare su Zhirinovsky? I Paesi occidentali farebbero bene a trattare con Putin, senza concludere un matrimonio d’amore: una soluzione certo discutibile, ma assai meno indigesta delle alternative.

 

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