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I partiti dopo la Seconda Repubblica

Dopo la fase delle formazioni di massa incentrate su identità e appartenenza arriva a conclusione anche quella delle forze di plastica, liquide, degli staff. Oggi non si può prescindere da una dimensione associativa ampia e strutturata
di Carlo Buttaroni

La democrazia ha ancora bisogno dei partiti. Ma quali? E’ questa la domanda che molti si pongono. I partiti della prima Repubblica erano la combinazione d’identità e appartenenza, dove era essenziale l’adesione a valori e a idee che diventavano militanza diffusa. Un modello di partito che si poggiava su un’organizzazione interna solida, su processi di formazione e di selezione dei quadri dirigenti e su un’attività di comunicazione e propaganda, che si rivolgeva innanzitutto alla propria militanza e poi, in un secondo livello, verso aree sociali coerenti con tali idee e programmi.
Oggi tutto questo non c’è più e la trasformazione della “forma partito” tradizionale, iniziata con la fine della prima Repubblica, ha dato corpo a “partiti-contenitore”, disposte verso un modello elitario ed elettorale, che, di volta in volta, ha assunto le sembianze di partito personale, di partito di plastica, di partito mediale, di partito liquido e leggero, di partito-azienda. Forme e definizioni che rivelano un cambio di mission della politica targata seconda Repubblica. Il nuovo paradigma è la presenza nelle istituzioni, cui si accompagna un progressivo abbandono del ruolo di rappresentanza sociale, che è diventata più frazionata e marginale all’interno delle stesse organizzazioni politiche. Per i partiti della seconda Repubblica, più che i valori e l’organizzazione interna, conta mettere insieme candidati capaci, innanzitutto, di raccogliere consenso. Strutturarsi e far crescere una militanza organizzata è inutile, e spesso rappresenta un peso, così come avere identità e appartenenze sedimentate su ideologie di riferimento. La ricerca di adesioni formali al partito è sovrastrutturale e l’elaborazione di regole interne, sulla base delle quali selezionare i dirigenti e i quadri dell’organizzazione, diventa del tutto marginale.
Ciò che conta veramente è reclutare candidati con modalità operative del tutto flessibili, ispirate essenzialmente al saper cogliere gli orientamenti dell’elettorato, piuttosto che ispirate alla coerenza con l’identità, i valori e il programma del partito.
Al posto della burocrazia politica interna, tipica dei partiti della prima Repubblica, ha preso corpo, in questi anni, una crescente professionalizzazione del personale di staff, con consulenti e collaboratori nominati discrezionalmente dai leader, che hanno sostituito i vecchi organismi dirigenti. E mentre le funzioni d’integrazione e di rappresentanza politica territoriale venivano progressivamente erose, le funzioni istituzionali dei partiti venivano sempre più esaltate.
Tutto ciò ha portato a una crescente dipendenza dalle risorse statali, a un aumento del peso degli eletti rispetto alle cariche politiche interne, all’esaltazione del ruolo e dell’immagine del leader, come unico medium della proiezione politica verso l’esterno. Una tendenza cui ha corrisposto l’indebolimento della rete territoriale, sostituita dall’uso smodato dei media e della comunicazione pubblicitaria. Un modello dove l’adesione militante perde peso e contemporaneamente si affida alla “gente” il compito di legittimare le leadership, attraverso processi di selezione diretta come, ad esempio, le primarie. Un processo, spesso sostenuto dalla retorica di contrastare gli apparati, che ha scavalcato il tradizionale livello intermedio, una volta rappresentato dai dirigenti politici e dai militanti, e che si è rafforzato all’interno di una concezione individualistica della partecipazione, finalizzata all’esclusivo momento elettorale.
Una deriva che ha dato corpo a partiti orientati, prevalentemente, alla conquista delle cariche elettive, svincolati da qualsiasi rappresentanza sociale e di classe, affidati quasi completamente al leader, il quale ha anche il compito di rivolgersi direttamente agli elettori.
Oggi questo modello è definitivamente in crisi e si sente l’urgenza di un ripensamento e di un riequilibrio tra i concetti di governabilità e rappresentanza. La crisi di consensi delle due principali coalizioni – e dei due principali partiti – ha origine proprio dalla crisi del sistema della rappresentanza. Ed è difficile non rendersi conto che il modello di partito, che si è affermato nella seconda Repubblica, non è più il contenitore adatto a contenere le spinte di rinnovamento che vengono dalla società.
Anche il Pd sta pagando il prezzo di questa tendenza ad andare oltre i partiti della seconda Repubblica, quando, nelle primarie, vede i propri candidati sconfitti da outsider accomunati da un’immagine di uomini fuori dalla tradizionale nomenclatura.
Quindi quali partiti e quale “modello di partito”? L’eclissi della seconda Repubblica pone quest’interrogativo. Lo fa con toni drammatici che richiamano l’urgenza di un rovesciamento di missione: far tornare la politica a favore dei cittadini, visti non più come strumento per raggiungere le istituzioni, ma come fine ultimo di azioni ispirate al bene comune. I partiti, con i loro pregi e difetti rimangono, comunque, “organizzazioni orientanti”. E anche quando parole come crisi e degenerazione, riferite al sistema politico, s’ispirano a un sentire collettivo, non segnano lo spartiacque di un abbandono, semmai il contrario: la presa di coscienza della necessità di un nuovo patto che suggelli il ritorno ai valori condivisi di un ethos civile e di una solidarietà intelligente, anche se in forme nuove. Perché se la nostra è una società liquida, in continua trasformazione, nondimeno esprime una domanda d’identificazione e di senso.
Il tracciato non può che essere quello di forme politiche diffuse, che ripartano dal basso, invertendo la direzione di marcia che ha caratterizzato questi anni, sia per il ruolo che può esercitare il territorio nel sistema politico nazionale, che come agente di una più elevata qualità della democrazia, paradigma, al tempo stesso, di una critica del sistema politico attuale e della sua possibile trasformazione.
Ripartire dal territorio e dalle città è un’alternativa possibile al modello partito che si è affermato in questi anni, fondato sul presupposto di ricostruire la dimensione associativa dei territori, visti non più come una variabile organizzativa, ma come elemento costitutivo di un organismo più ampio, dove la discussione pubblica, il confronto delle idee, i processi di apprendimento collettivo, abbiano un ruolo fondamentale anche nella costruzione di nuove forme di rappresentanza sociale e di una costante tessitura del loro significato politico. Non un atto isolato, che conferisca un mandato al quale rispondere solo a tempo debito, ma un processo in grado di attingere dalla ricchezza di esperienze che vivono sui territori, capace di fecondare a sua volta, e immettere, in un circuito più ampio, saperi e pensieri condivisi.
La dimensione organizzativa, anche se basata su una libera associazione d’individui che condividono idee, valori e programmi politici, rimane un dato essenziale, perché qualsiasi modello deve fondarsi su una dimensione ampia e strutturata. E nel momento stesso in cui esercita questo ruolo, un partito rafforza la qualità della democrazia e il rapporto tra istituzioni e società, produce pensieri, accresce le competenze politiche, offrendo ai cittadini canali e occasioni di partecipazione. E lo fa, anche (e soprattutto) attraverso la propria vita interna, se questa si alimenta e si esprime attraverso la discussione pubblica, il confronto argomentato, l’interazione tra i vari soggetti che partecipano.
Una dimensione associativa, ampia e strutturata, che viva in una circolarità permanente di partecipazione e rappresentanza.
Quando Adriano Olivetti, nel 1955, decise di realizzare un nuovo stabilimento di produzione a Pozzuoli, volle che fossero create ampie finestre verso il mare e verso il parco, così da rendere più gradevole e bello il luogo di lavoro. In quel periodo le fabbriche erano rigorosamente chiuse verso l’esterno, giravano le spalle alla città, mentre nel pensiero olivettiano la produzione doveva entrare nei luoghi dove vivevano le persone, per integrarsi reciprocamente, perché il lavoro è soltanto una delle variabili con cui si esprime una comunità di individui, legati tra loro, innanzitutto, da culture, da storie e da valori comuni. Una visione quanto mai attuale, che può prendere forma e sostanza in un progetto di “politica” che si riorganizza dal basso, dove democrazia e rappresentanza non siano solo funzioni tecniche, ma servano a favorire concretamente la crescita della coscienza civile dei cittadini. I partiti della terza Repubblica devono ripartire dalle città, puntando sulle membership diffuse anziché solo sulle leadership elitarie, aprendo finestre sulla società per integrarsi con tutto ciò che è intorno. Questo è ciò che serve. Ed è questo che può far entrare il futuro da quelle finestre.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 6 marzo. Di seguito l’indagine Tecnè.

 

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