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La crisi economica e il nuovo che avanza

Nel vertice del 29 marzo a New Dehli i Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) non le hanno di certo mandate a dire. Proviamo a riassumere, in soldoni.
Pur non avanzando particolari pretesei i leader dei Paesi in via di sviluppo hanno chiesto a Stati Uniti ed Europa una maggiore considerazione per ciò che riguarda la governance globale. E sviscerando qualche numero si capisce presto perché. Il presupposto è la “rappresentanza” dell’organizzazione: 43% della popolazione mondiale, 20% del Pil mondiale e una crescita nel 2012 pari al 56% stando alle stime del Fondo monetario internazionale. Nel frattempo che fanno i Brics? Si tutelano e pensano all’istituzione di una Banca dello sviluppo Sud-Sud che permetta loro di raccogliere risorse da investire nella crescita economica. Ma questo non vuol dire che non ci siano contraddizioni all’interno del gruppo Brics. Tra i cinque Paesi l’economia trainante, al momento, è quella cinese (l’Italia è il quinto partner commerciale di Pechino) di cui si prevede il superamento ai danni degli Stati Uniti entro il 2020, per poi lasciare il posto, presumibilmente, all’India (tra i Paesi dell’Ue, il nostro è il quarto partner commerciale) nel 2050. Il Brasile ha nella Cina, in questo momento, il primo partner commerciale come sottolineato in un recente articolo del Journal de Brasil. Eppure politicamente i cinque Paesi presentano ancora delle numerose divergenze, rese ancora più evidenti dalle distanze su una ipotetica “candidatura” alla presidenza della Banca mondiale da contrapporre alla personalità scelta dalla Casa Bianca, Jim Yong Kim. Nonostante le più rosee previsioni, infine, c’è da considerare che l’economia cinese – osservazione della Banca mondiale risalente a poco più di un mese fa – potrebbe rallentare drasticamente la crescita per via del raggiungimento dello stato di soddisfazione che coinvolge soprattutto il ceto medio. “Le banche cinesi – spiegava Marco Perazzi in quei giorni sulle pagine di T-Mag – hanno per il momento dirottato i risparmi dei lavoratori verso le imprese di stato, anziché reinvestirli nel sostenere i consumi degli stessi risparmiatori. I cittadini, dal canto loro, non saranno disposti per molto tempo ancora a recitare il solo ruolo di carburante a buon prezzo per il motore economico. Rivendicazioni di diritti, sindacali e non solo, non tarderanno ad arrivare e già si sono registrate avvisaglie di una ribellione civica della popolazione; il controllo militare esercitato dal regime è per ora riuscito a reprimere ogni focolaio di malcontento ma non potrà permettersi, pena la stabilità dei suoi rapporti internazionali e l’immagine stessa dell’economia, un’altra Tienanmen senza subire contraccolpi”.
“Così come è strutturata, l’economia cinese sta già accusando i contraccolpi della recessione europea ed americana: le esportazioni nette verso i nostri mercati hanno già cominciato a segnare il passo e le aree manifatturiere del sud est della costa pacifica stanno inevitabilmente pagando il conto. Le immense aree industriali, nate sul vantaggio comparato di un bassissimo costo del lavoro e per grandi volumi di produzione (che compensano i risicatissimi margini di profitto sul bene finito), hanno già visto moltiplicarsi i segni evidenti di un’insofferenza popolare diffusa e sempre più a stento gestibile dalle autorità”.
E la questione non si chiude qui. Nella fase di crisi che ha investito Stati Uniti ed eurozona inevitabilmente nuovi attori scalpitano. Sono Paesi emergenti a cui i Brics non potranno fare altro che aprire le porte (e la creazione della Banca dello sviluppo Sud-Sud potrebbe considerarsi un primo segnale). Tra questi figurano il Qatar, il Kazakistan, il Vietnam, la Nigeria, il Ghana e l’Indonesia, ma sono all’incirca 21 economie il cui Pil è cresciuto del 6,2% nel 2011 e aumenterà, secondo lo studio Rapid growth markets, del 5,9% quest’anno.

F. G.

 

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