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Come funziona il finanziamento ai partiti

di Antonio Caputo

Dopo gli ultimi avvenimenti che hanno scosso la scena politica, si è riaperto il dibattito sul tema del finanziamento pubblico ai partiti. In piena Mani Pulite, nella primavera 1993, si tenne un referendum (proposto dai radicali) sull’abrogazione della legge sul finanziamento ai partiti. Il referendum passò con una maggioranza schiacciante: oltre il 90.3% degli elettori (affluenza al 76.9%) votò per il SI all’abrogazione. Già quindici anni prima, radicali e liberali (forze che contavano, sommate, il 5% circa degli elettori) tentarono di abrogare la legge in materia: la proposta non passò, ma ebbe il favore di quasi il 44% dell’elettorato.
Torniamo al 1993: nel dicembre di quell’anno, sotto forma di rimborso forfettario, una legge reintrodusse di fatto il finanziamento pubblico ai partiti; la legge funzionò per le due elezioni politiche successive (1994 e 1996).
Dopo un tentativo (fallito) di introdurre una contribuzione privata tipo quella in vigore sull’8 per mille, fu varata (nel 1999) una nuova legge che prevedeva il rimborso per i partiti che avessero superato il 4% dei voti, per un ammontare pari a circa 190 milioni di euro per tutta la legislatura; qualora però la legislatura si fosse interrotta (e si fosse fatto ricorso ad elezioni anticipate), si sarebbe interrotto anche il contributo.
Nel 2002 le cose cambiano ulteriormente: aumenta l’entità del rimborso (fino a quasi 500 milioni di euro per legislatura), e si allargano le maglie per l’accesso ai fondi: lo sbarramento per ottenere i finanziamenti scende dal 4 all’1%.
Anche alla vigilia delle elezioni del 2006 la normativa muta nuovamente, in senso ancor più favorevole ai partiti: il rimborso scatterà comunque per l’intera legislatura, anche in caso di interruzione (ossia di elezioni anticipate). Con le ultime modifiche, ciascun partito ottiene 5 euro, in pratica uno per ogni anno di legislatura, per ogni voto raccolto, alle elezioni della Camera, del Senato, europee e regionali; cui bisogna aggiungere i finanziamenti pubblici per le pubblicazioni di partito e legate ai partiti, che finiscono a giornali, spesso, introvabili.
Oltre ai rimborsi elettorali, i partiti beneficiano di forti incentivi fiscali sulle donazioni private, incentivi assai più alti di quelli per le donazioni alle fondazioni benefiche (“Meglio a noi che a Madre Teresa”, come titolava un capitolo del libro La Casta, di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, del 2007).
Ognuna di queste normative è stata introdotta (quasi) all’unanimità.
Questo fiume di denaro, al di là dell’ipocrisia legislativa, non è definibile come semplice rimborso spese ma è un vero e proprio finanziamento pubblico, che contraddice l’esito, a valanga, del referendum del 1993.
Dopo gli scandali degli ultimi giorni, i partiti della maggioranza che sostiene il governo Monti (Pdl, Pd ed Udc), hanno intrattenuto conversazioni telefoniche per accordarsi in vista del varo di modifiche alla legge sui rimborsi; anche il Governo si è detto favorevole, pronto a modifiche da introdurre anche per decreto.
I partiti, soprattutto il Pdl, sono più favorevoli ad una soluzione parlamentare, da votare in tempi strettissimi, nel senso di introdurre una normativa analoga al 5 per mille, che preveda, anche per i partiti, quanto previsto per gli enti di volontariato.
Il tema si può prestare a demagogia: è ovvio che se si domanda all’elettorato, tanto più in tempi di crisi e di scandali, se mantenere o abolire il finanziamento pubblico ai partiti, la stragrande maggioranza si esprimerà per l’abolizione; ma, pur con le dovute limitazioni (ad esempio portando tali finanziamenti a livello europeo) rispetto a cifre che stanno diventando anno dopo anno sempre più inaccettabili, se non scandalose, una forma di contribuzione pubblica alla politica ritengo vada mantenuta, onde evitare, da un lato, di mettere completamente la politica nelle mani di lobbies e gruppi di pressione, già molto (e forse troppo) attivi sui partiti, e sui singoli esponenti; dall’altro, che il governo della cosa pubblica sia appannaggio solo dei più ricchi.

 

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