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Il commento

di Antonio Caputo

Altra sfornata di appuntamenti elettorali, la scorsa settimana, per la corsa alla nomination, con dei caucuses in sei Stati che hanno riguardato i soli Democratici (per i Repubblicani, in Nebraska voto più in la, negli altri Stati si era già votato).
Si è cominciato lunedì 9, con l’Alaska, per proseguire, sabato 14, con ben quattro Stati (Idaho, Kansas, Nebraska, Wyoming), ed infine, domenica 15, con lo Stato di Washington, nel Nordovest della Costa Pacifica.
In tutti i casi Obama non aveva avversari, correndo come unico candidato, ed aggiudicandosi tutti i delegati.
Con le sei vittorie riportate, Obama si è così matematicamente aggiudicato il numero di delegati (2778 ossia la maggioranza assoluta) necessari per ottenere la candidatura democratica, anzi, è riuscito anche ad andare oltre (è a 2854) e così, quel che era chiaro sin dall’inizio, diviene ora ufficiale: Barack Obama che in quasi tutti gli Stati corre senza avversari, sarà il candidato democratico alla Casa Bianca.
Una premessa, quella sui caucuses democratici, necessaria, per comprendere i meccanismi della democrazia americana: neppure i Presidenti uscenti sono esentati dalle primarie. Il presidente è il presidente, è vero, ma il candidato del suo partito alle successive elezioni è chi si conquista sul campo la nomination e potrebbe benissimo essere un altro: quest’anno si terrà la 17esima elezione presidenziale dal dopoguerra; su 17 elezioni, in quattro casi (1960, 1988, 2000, 2008) il Presidente uscente non poteva candidarsi, avendo già svolto due mandati; delle altre 13, cinque (1948, 1968, 1976, 1980, 1992) hanno visto un Presidente uscente seriamente sfidato (ed in tutti i casi al presidente è andata male: o perché, visti i cattivi risultati, si è ritirato dalle primarie, o perché, anche quando le abbia vinte, è stato battuto in novembre); le otto rimanenti (tra cui quella di quest’anno) no.
Naturalmente, il raggiungimento da parte di Obama della quota di delegati necessari alla nomination, non interrompe la partita: ancora 20 gli Stati che dovranno esprimersi, di qui a due mesi, quando la carovana delle primarie chiuderà i battenti, in attesa delle convention di fine estate. La corsa, dunque, prosegue: non è come nella “lotteria dei rigori”, dove, in caso il vincitore sia matematicamente tale, non si battono gli ultimi tiri dal dischetto. E così tra i Repubblicani: il ritiro di Santorum incorona Romney, il quale pur essendo ormai certamente il candidato repubblicano, non ha, peraltro, ancora raggiunto i 1144 delegati, cifra che gli garantirebbe la nomination, e quindi, a maggior ragione, si dovrà ancora confrontare (sia pure per quel che è diventato ormai un pro forma) con gli sfidanti Gingrich e Paul nei residui appuntamenti che ancora mancano.
Sarà, così, Obama contro Romney, la sfida del 6 novembre prossimo. L’esser diventato il candidato “inevitabile” per i Repubblicani, dopo l’uscita di scena del suo più forte avversario (Santorum), sta sortendo, per l’ex Governatore del Massachusetts, un effetto “luna di miele”, nei sondaggi, che lo vedono in netta rimonta nei confronti di Obama, rispetto ai dati, decisamente negativi, di qualche settimana addietro. Sara’ vera rimonta, o solo un fuoco di paglia? Presto per dirlo: la sfida presidenziale ci ha sempre riservato colpi di scena, rimonte, e montagne russe tali per cui fino all’ultimo i sondaggi ballano e parecchio. Impossibile far previsioni ora: avrebbero l’attendibilità di una moneta lanciata in aria.

 

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