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Un calcio sintomo del malessere sociale

di Matteo Romani

Ci eravamo lasciati con le lacrime per la scomparsa del giovane e sfortunato Morosini. Una morte atroce, un ragazzo che il destino ha voluto colpire fino in fondo, quasi a farsi beffe della sua voglia di continuare ad andare avanti nonostante tutto e tutti. Quindi la decisione, benedetta dall’intero universo pallonaro, di non giocare e rinviare le partite. Poi il primo segnale allarmante: mentre i tifosi ricordavano Morosini, a Livorno come a Bergamo, le squadre della massima serie litigavano su quando recuperare la giornata persa. Pessima figura che ha coinvolto l’intera Lega di A. Imbarazzi tra i dirigenti e mezze smentite di circostanza che però non hanno evitato l’ennesima, colossale figuraccia di un sistema autoreferenziale del tutto inadeguato a gestire l’intero movimento calcistico, così come testimoniato anche dai più recenti fatti di cronaca.
Alla fine si è riusciti a trovare un accordo e a tornare in campo. Prima delle partite lutto al braccio, minuto di silenzio e giocatori abbracciati mischiati fra di loro per rendere omaggio a chi ha perso la vita rincorrendo un pallone. Tutto bello, tutto giusto. Chiaramente non poteva durare. Almeno non in un paese come il nostro che vive di eccessi, nello sport e non solo. E così ci ritroviamo a commentare un gruppo di ultras che non solo sospendono la partita ma addirittura invocano la restituzione delle maglie. Una scena grottesca, al limite del tragicomico, ma che ha superato se stessa nel momento in cui i giocatori del Genoa, alcuni in lacrime, hanno acconsentito a tale richiesta.
E alla mente è ritornato ad alcuni il derby di Roma del 2004, sospeso all’inizio del secondo tempo da entrambe le curve perché si era sparsa la voce che un bambino fosse stato investito da una camionetta della Polizia. Versione contradditoria, che non ha convinto i più. Ma anche se ci fosse stata una strategia da parte del tifo più facinoroso, la stragrande maggioranza dei supporter presenti al derby della capitale quel giorno ha effettivamente pensato che si fosse verificata una tragedia e che quindi la decisione di sospendere il match potesse essere giustificata (meno gli scontri che seguirono al triplice fischio dell’arbitro). Ma a Genoa non c’erano nemmeno una scusa o una motivazione. L’unica era che il Grifone stesse andando in B. Certamente l’incubo di ogni tifoso ma che non giustifica lontanamente quello che è accaduto a Marassi. Non sono e non possono essere i tifosi a decidere quando si smette di giocare e questo perché l’Italia è uno stato di diritto e sono le leggi a garantirne il regolare funzionamento. Tanto nella vita civile quanto nello sport. E se si è arrivati a questo punto è perché qualcuno l’ha permesso.
Mettersi a gridare oggi allo scandalo è troppo facile, così come è facile prendersela con le forze dell’ordine che nel capoluogo ligure hanno deciso di non intervenire durante le proteste degli ultras. Non tutti sanno che la sicurezza all’interno degli stadi spetta alle società che dovrebbero garantirla con i cosiddetti “stewards” sulla cui preparazione alla luce di questo ed altri episodi occorrerebbe riflettere.
Ora non ci resta che aspettare l’intervento delle autorità che dovranno dimostrare con i fatti che gli stadi ogni domenica non si trasformano in zone franche dove è consentito sfogare la rabbia e la frustrazione della settimana. Ma sbaglia che pensa che il problema sia solo relativo al calcio. Una società “civile” o presunta tale, che produce una simile mostruosità è malata, ed i sintomi di questa malattia dovrebbero iniziare a preoccupare ben oltre i ristretti confini dello sport.

 

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