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La Festa del lavoro al tempo della crisi

È un Primo Maggio contro la crisi quello che si celebra da qualche anno a questa parte. Stavolta lo è di più. La Festa dei lavoratori pare si stia trasformando piuttosto in una giornata di riflessione su come superare l’alto tasso di disoccupazione o qualcosa di molto simile. In Italia sono 2,1 milioni le persone senza un lavoro. Lo ha riferito non più tardi di un giorno fa l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro dell’Onu). Nel quarto trimestre del 2011, è stato rilevato, la disoccupazione ha raggiunto livelli record – i più alti dal 2001 – attestandosi al 9,7%. E i dati reali potrebbero essere peggiori perché ai 2,1 milioni di disoccupati andrebbero poi aggiunti i 250 mila lavoratori in cassa integrazione.
Ma ci sono numeri che oggi appaiono ancora più inquietanti. E sono quelli relativi alla disoccupazione giovanile, che ormai si attesta al 32,6%. Un campione che contempla, almeno in parte, anche l’esercito dei Neet (Not in education, employment or training), vale a dire tutte quelle persone che non studiano né lavorano. Sono 1,5 milioni, sempre secondo l’agenzia dell’Onu.
Certo, queste cifre sono figlie della crisi economica. Ma anche di un ritardo strutturale che ha concesso troppo poco alle giovani generazioni. E non solo a loro. L’Istat ha recentemente censito 2 milioni 897 mila inattivi (+4,8%, pari a 133 mila unità in più su base annua), il livello più elevato dal 2004. In questo contesto, anche il divario di genere si fa sentire. Nella media dello scorso anno, le donne che appartengono al gruppo degli inattivi corrispondono al 16,8% delle forze di lavoro, a fronte del 7,9 % degli uomini.
La riforma del mercato del lavoro varata dal governo ha lo scopo – inutile ripeterci ulteriormente – di sviluppare un modello dinamico e flessibile. L’esecutivo ha dovuto però fare i conti con un disagio sociale crescente (l’acuirsi della crisi economica, la pressione fiscale alle stelle, la difficoltà di accedere al credito, il “pasticciaccio” degli esodati, l’eccessivo precariato dovuto all’ambigua interpretazione delle 46 tipologie contrattuali), reso oltremodo inevitabile dalla polemica, talvolta pretestuosa, sull’articolo 18 che però nelle intenzioni dei professori Monti e Fornero avrebbe dovuto garantire il superamento del dualismo nel mercato del lavoro.
Le riforme avranno un impatto, speriamo positivo, nel lungo periodo. Intanto i numeri dicono altro e non confortano granché. Nel complesso il 42,6% degli individui classificati tra gli inattivi che non cercano lavoro (ma che sono disponibili) dichiara di avere rinunciato perché ritiene di non trovarlo. L’incidenza degli scoraggiati sale fino al 47% nelle regioni meridionali, in cui alle minori opportunità d’impiego si affianca una maggiore sfiducia nella possibilità di trovare e mantenere un’occupazione. Nel caso delle donne, oltre allo scoraggiamento, la cura dei figli o dei familiari rappresenta il motivo più significativo della mancata ricerca del lavoro (ciò vale per una donna su cinque) a conferma del fatto di come in Italia la famiglia sia a tutt’oggi la prima forma di welfare. E tra i giovani neolaureati triennali non può andare meglio considerato che la disoccupazione è aumentata rispetto allo scorso anno dal 16% al 19%, secondo l’ultimo rapporto AlmaLaurea.
Un Paese incapace di iniettare fiducia nei cittadini è un Paese incapace di crescere. È da questo esercito di scoraggiati che l’Italia deve ripartire, colmando così il deficit di futuro che coinvolge i diversi tessuti del sistema Paese, rilanciandolo in una reale prospettiva di crescita.

F. G.

 

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