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I dieci Paesi che minano la libertà di stampa

di Mirko Spadoni

Mettere a tacere chi vuole raccontare cosa succede e cerca di spiegare il perché e il come. Imporre il silenzio per nascondere episodi scomodi, che possono intaccare la leadership di chi detiene il potere. In certi Paesi succede. Lì non importa come, non interessa il mezzo, basta che di certe cose non se ne parli.
Ed ecco che, in occasione della Giornata mondiale per la libertà di stampa, il Comitee to Project Journalists pubblica l’elenco delle dieci nazioni dove la censura è più forte.
Chi ha stilato questo elenco, è bene dirlo, ha analizzato tutti i paesi in base a 15 parametri di riferimento ed ha considerato solo quelle nazioni dove le restrizioni vengono imposte dallo Stato. Quindici, dunque, sono le diverse misure di censura considerate: il ​​blocco dei siti web, ad esempio; le restrizioni sulla registrazione e la diffusione elettronica, l’assenza di mezzi di proprietà privata o indipendente; le restrizioni sui movimenti di giornalisti, i requisiti di licenza per poter svolgere l’attività di giornalista; il servizio di monitoraggio per la sicurezza dei giornalisti; disturbo delle trasmissioni straniere, il blocco dei corrispondenti esteri. “Tutti i paesi sulla lista – spiegano quelli del CPJ – hanno almeno dieci di questi punti di riferimento”.
Partiamo dal basso, dalla decima posizione dove troviamo la Bielorussia di Aleksandr Lukashenko. Nell’ex Paese sovietico, le recenti repressioni hanno spinto gli ultimi media indipendenti a operare clandestinamente.
Alla nona posizione si vola oltreoceano, a Cuba “dove il partito comunista – si legge nel rapporto – controlla tutti i media nazionali”. Ma mentre il paese centramericano scende dal settimo al nono posto, c’è chi, come l’Arabia Saudita, entra per la prima volta nelle prime dieci posizioni, classificandosi come ottava. Il regime saudita, oltre ad impedire l’accesso a reporter stranieri, oltre a limitare la libertà di stampa con “pene severe e arbitrarie”, ha imposto zone off limits dove non è possibile recarsi.
Perde posizioni e neanche poche, la Birmania. Il Paese asiatico, dopo aver rilasciato numerosi reporter incarcerati ed aver permesso ai media stranieri di seguire la visita del segretario di Stato statunitense Hillary Clinton, è passato dalla seconda alla settima posizione.
Al sesto posto, troviamo il primo dei due paesi africani presenti nella graduatoria: la Guinea Equatoriale, dove l’informazione è controllata, direttamente o indirettamente, dal presidente Teodoro Obiang.
In Uzbekistan, quinto in classifica, non esistono media indipendenti e ai giornalisti stranieri vengono negati accrediti e visti.
In quarta posizione c’è l’Iran di Mahmoud Ahmadinejad. Teheran si serve di arresti di massa e, una volta carcerati, i giornalisti sono sottoposti ad “abusi fisici e vessazioni”.
Dopodiché si passa alle prime tre posizioni. Il gradino più basso di questo non certo invidiabile podio è occupato dalla Siria. Il regime di Damasco ha intensificato la censura successivamente all’accendersi delle proteste popolari che chiedono la deposizione dell’attuale presidente siriano, Bashar al Assad.
Seconda in classifica la Corea del Nord, dove l’informazione diffusa dai dodici principali quotidiani, dai venti periodici e dalle emittenti televisive si concentra sulle dichiarazioni del leader Kim Jong-un e sulle presunte attività svolte dal regime.
La prima posizione è occupata dall’Eritrea. Nel Paese africano, i reporter svolgono la mera funzione di portavoce del governo. Chi non si attiene alle indicazioni viene “gettato in carcere senza accusa né processo e – informa il rapporto – viene detenuto per lunghi periodi di tempo”. Inoltre, il presidente Isaias Afewerki, al potere dal 1993, non lascia spazi ai media stranieri: l’ultimo cronista estero è stato espulso dal Paese nel 2007.

 

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