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Se si colpisce la famiglia, welfare addio

di Carlo Buttaroni

Una buona e una cattiva notizia. Cominciamo dalla seconda: secondo molti osservatori, i tempi della ripresa saranno più lunghi del previsto. A sostenerlo, tra gli altri, c’è il premio Nobel per l’economia Eric Maskin. Una previsione che spiazza tutti – operatori economici, lavoratori, giovani – che speravano in qualche segnale di ripresa già dalla seconda metà di quest’anno. Un protrarsi che porta a farsi delle domande, per le quali si attendono risposte che lascino intravedere la luce alla fine del tunnel. E che soprattutto diano concretezza a un futuro, al momento, così nebuloso. Adesso, però, la buona notizia: sembra farsi strada, a livello europeo, la consapevolezza, che politiche economiche eccessivamente restrittive, rischiano di far avvitare la crisi su se stessa. Il passo successivo, a questo punto non può che essere politico e riguarda le scelte di natura economica e sociale. Scelte politiche, appunto. Anche perché, forse, una parte di responsabilità del prolungarsi della crisi è nel silenzio che ha avvolto questioni fondamentali che riguardano la natura e l’indirizzo di riforme, senz’altro necessarie, ma che mancano di quel necessario tasso politico, indispensabile a farle diventare risposte. Come quelle che ruotano intorno al sistema di Welfare state.
La domanda è se il modello economico e sociale del futuro fonderà ancora sull’idea di uno Stato che attraverso norme, servizi pubblici, stili di vita e modelli culturali tende a ridurre i rischi individuali facendosene carico come comunità. Nel caso positivo, a quale altezza sarà posta l’asticella delle protezioni sociali e dei diritti universali? Oppure si ritiene che non ci sia più spazio per politiche pubbliche di accompagnamento nei percorsi di vita e di sostegno alla fragilità a carico della collettività? E quindi la domanda speculare è: in futuro tutto sarà demandato alla capacità del singolo individuo di farsi carico del suo destino, garantendo soltanto fasce di popolazione confinate nella povertà assoluta? Queste sono le questioni fondamentali che abbiamo davanti, perché in esse c’è l’espressione di quale modello economico e sociale corrisponde alle riforme che saranno messe in campo nei prossimi anni. E forse già nei prossimi mesi.
E’ pur vero che il modello di società che aspirava al benessere di tutti i cittadini è in sofferenza. D’altronde è dalla fine degli anni Novanta che si discute di riformarne i contenuti e le forme, adeguandole alle nuove esigenze della società. Finora il principale esercizio è stato, però, quello di limitarne la spesa attraverso tagli che ne hanno progressivamente ridotto il senso universalistico e l’estensione in termini di diritti realmente esigibili.
Si tratta di conquiste, oggi messe in discussione, ma che hanno coinciso con un percorso di crescita e di emancipazione della società e dell’individuo. Perché quella del welfare è una storia di straordinario progresso sociale e civile, che ha segnato positivamente l’affermazione di diritti universali, e che ha avuto proprio in Europa l’incubatore di uno sviluppo legato a principi di qualità sociale.
Una storia lunga e sofferta: basti pensare che le prime, elementari, forme di protezione sociale, risalgono al 1601, quando in Inghilterra furono promulgate leggi sui poveri, che prendevano le mosse da considerazioni quanto mai attuali, secondo le quali, diminuendo il tasso di povertà, si riducevano fenomeni critici come la criminalità. Una seconda fase risale alla rivoluzione industriale, quando le prime “assicurazioni sociali” cominciarono a garantire i lavoratori nei confronti di avvenimenti avversi, come incidenti sul lavoro e malattie. Ma è nel dopoguerra che il welfare state si afferma nelle forme attuali. L’idea di sicurezza sociale realizzò un decisivo passo avanti con il Rapporto dell’economista William Beveridge, il quale definì in maniera strutturata, i concetti di sanità pubblica e pensione sociale che trovarono poi applicazione nelle riforme attuate dal primo ministro inglese, Clement Attlee. Fu la Svezia però, nel 1948, il primo paese a introdurre una concezione universale dello Stato sociale, estendendo la pensione a tutti i cittadini, fondata sul riconoscimento del diritto di nascita. Da quel momento il welfare assume una concezione moderna, rendendo tutti i cittadini portatori di eguali diritti civili e politici. L’affermazione del neonato Stato sociale e l’estensione progressiva degli standard e dei livelli di servizi, è stata accompagnata, negli anni a seguire, da un forte incremento della spesa pubblica, compensata da una crescita costante del Pil dove l’una alimentava l’altra. E, per quasi cinquant’anni, questo modello economico e sociale ha garantito a fasce sempre più ampie di popolazione uno sviluppo legato a parametri di qualità e adeguati apparati di protezione sociale. Sono stati gli anni in cui in tutta Europa si è affermata la classe media, principale logos ideologico delle politiche socialdemocratiche e liberali. Ma partire dalla fine degli anni 90, in tutta Europa, questo modello sociale entra in sofferenza e il calo dell’importanza dell’industria, le crisi cicliche, l’espandersi del settore delle alte tecnologie, l’affermarsi di nuovi paradigmi produttivi, hanno contribuito, direttamente e indirettamente, alla sua crisi modificando la struttura economica, le gerarchie e gli attori sociali.
La classe media, che a lungo aveva rappresentato il principale bacino di domanda di beni e servizi, nonché di approvvigionamento economico per finanziare la crescente spesa sociale, si disarticola tra lavoratori ad alto livello di specializzazione, caratterizzati da redditi medio-alti, e una massa, in costante aumento, di lavoratori meno formati, collocati nell’industria tradizionale o nei servizi, caratterizzati da redditi più bassi. Contestualmente, una terza fascia della popolazione, altrettanto importante dal punto di vista numerico, scivola verso soglie prossime alla povertà̀: si tratta prevalentemente di operai, pensionati e anche di alcune categorie di dipendenti pubblici. Di conseguenza, anche i meccanismi di protezione sociale entrano in crisi, anche perché si deteriora progressivamente la possibilità di finanziarli facendo leva sui ceti medi. E mentre diminuisce il bacino di finanziamento, contestualmente cresce il fabbisogno economico determinato dall’aumento della vita media e dal costo della sanità pubblica. A questo si aggiunge la competitività dei Paesi emergenti che spinge le imprese a recuperare terreno, riducendo i costi di produzione e le forme di tutela nei confronti dei lavoratori. Così mentre le imprese diventano flessibili, i lavoratori diventano precari.
In Italia si è sviluppato un sistema di welfare peculiare rispetto agli altri Paesi europei, fondato sulla famiglia. Un ruolo di ammortizzatore sociale, quello del sistema famiglia, che si estende spesso oltre il nucleo familiare vero e proprio, soprattutto per quanto riguarda le attività di cura della persona. Oggi questo modello è particolarmente sofferente per il deficit storico d’infrastrutture sociali, storicamente sopperito dal ruolo di supplenza che svolgono le famiglie, le quali si trovano però a essere maggiormente colpite dalla crisi rispetto a quelle degli altri Paesi avanzati.
L’allungamento dell’anzianità lavorativa e la sempre maggiore longevità rappresentano oggi un punto di criticità non indifferente nella gestione nel modello di welfare italiano, dove, è facilmente prevedibile, che il “fantasma del care sociale” contribuirà in maniera determinante al sostanziale cambiamento delle modalità di ricorso alla rete familiare: giovani sempre più dipendenti dalla famiglia di origine, che si trovano a dover gestire genitori sempre più anziani, in un momento di crisi che disincentiva ulteriormente la propensione a intraprendere percorsi autonomi, a passare dalla condizione di figlio a quella di genitore, a partecipare attivamente non solo alla vita economica, ma anche a quella sociale.
Le famiglie italiane sono le più colpite dalla crisi economica, e allo stesso tempo, anche quelle costrette a fronteggiare livelli d’incertezza più elevati, come quelli determinati dalla precarietà crescente del mondo del lavoro (al quale, tra l’altro, riescono ad accedere con maggiore difficoltà rispetto al passato). Basti pensare che nel momento peggiore della crisi la riduzione dei redditi delle famiglie italiane è stata del 4%, a fronte di una riduzione del Pil del 6%. Nella maggior parte degli altri Paesi avanzati invece, nonostante la contrazione del prodotto interno lordo, il reddito delle famiglie è cresciuto. E’ stato così in Francia (Pil -3% e redditi familiari +2%), in Germania e negli Stati Uniti (Pil -4% e redditi delle famiglie +0,5%). Questa dinamica coincide anche per quanto riguarda i trasferimenti sociali: nel 2007, la spesa sociale per la famiglia e per i bambini, per l’abitazione, per il sostegno delle persone in cerca di lavoro e per il contrasto dell’esclusione sociale, in Italia era inferiore al 2% del Pil, mentre nell’area UE si attestava al 4,3% e a valori superiori al 5% in Francia e Germania.
I dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie, condotta dalla Banca d’Italia, sono eloquenti nel momento in cui evidenziano la caduta del tasso di risparmio e la crescita delle famiglie che non dispongono più di un reddito sufficiente a coprire i consumi di base.
Nonostante l’Italia sconti un forte ritardo nei confronti degli altri paesi europei in tema di politiche sociali, gli interventi di riequilibrio della finanza pubblica incidono moltissimo proprio sulle famiglie sia dal punto di vista dei redditi, che da quello del sistema di protezioni sociali. Allo stesso tempo, è proprio sulle famiglie che è stato trasferito il maggior peso di quel sistema di welfare informale che caratterizza il nostro Paese, nel momento in cui gli si chiede di farsi carico della disoccupazione dei figli, della cura dei nipoti e dell’assistenza ai nonni.
Ed è questo lo scenario sul quale riflettere. L’enfasi con cui si parla di famiglia non corrisponde a politiche in grado di sostenerne il ruolo economico e sociale che gli sono attribuiti e richiesti. Qual è, quindi, un modello di welfare ancora possibile nel nostro Paese? La politica non può esimersi dal dare risposte concrete e dal prendersi la responsabilità di una scelta.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 14 maggio. Sfoglia l’indagine Tecnè in Pdf.

 

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