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I suicidi all’epoca del giornalismo

di Marco D'Egidio

Sui suicidi per motivi legati alla crisi economica il giornalismo non poteva fare peggio. Non tanto perché abbia montato un caso dove non esiste (in realtà il boom non esiste davvero, come chi frequenta la Rete è probabile che sappia da qualche giorno), quanto perché ha speculato su un tema così delicato in modo approssimativo, morboso e forse perfino dannoso. Provo a spiegare perché.
Come può un cronista comprendere le vere ragioni di un suicidio nell’arco delle poche ore che lo separano dalla consegna del pezzo per l’indomani mattina? Non si penserà che basti un biglietto in cui chi ha deciso di farla finita spiega di non riuscire più a pagare i suoi dipendenti o a mantenere la famiglia. Né bastano le testimonianze di chi lo conosceva. Come se questi atti fossero la semplice e diretta conseguenza razionale di uno stato di grave difficoltà economica: in tal caso, sarebbero ben di più.
Già la sola presenza di una depressione costituirebbe motivo di sospensione del giudizio, quantomeno per cercare di capire la molteplicità delle cause, magari concorrenti, che potrebbero avere condotto a tanto. Ma questo, al giornalismo delle notizie che fanno notizia, che si rincorrono in una spirale di sciatteria e conformismo, non interessa. La regola implicita che gira nelle redazioni è: se non scriviamo subito che è un suicidio “per la crisi”, lo farà qualcun altro, e noi avremo perso la notizia. Un effetto domino che travolge il rispetto per chi si è tolto la vita, e che può fare danni.
Il punto, infatti, è che non stiamo parlando del delitto di Cogne o di Avetrana. In questi casi il giornalismo delle ipotesi spacciate per certezze fino a prova contraria rimane, al massimo, un problema di deontologia professionale, sacrificata in nome delle vendite o dell’audience. Non è poco lo stesso, ma almeno qui si può ragionevolmente confidare che nessuno emuli gli assassini per il solo fatto di aver sentito la notizia.
Nel caso dei suicidi, invece, il fattore emulazione è ampiamente dimostrato dagli psichiatri, e non è difficile da intuire: andreste mai a dire a uno che già medita un gesto estremo che un altro si è ucciso in questo o quel modo? Meglio il silenzio. Che nel mondo dei media o è totale o non è, in quanto non c’è moderazione reale nel trattare una notizia, magari relegandola nelle “brevi” di cronaca o in coda a un telegiornale; perché – ci puoi scommettere – qualcun altro dirà sempre una parola più di te. Il meccanismo di diffusione delle notizie è imprevedibile nel momento in cui si danno.
Se anche i suicidi per motivi economici fossero in crescita, quindi, non importa. Dei suicidi non si deve dare notizia, punto. Queste statistiche non sono paragonabili a quelle sull’aumento dei prezzi, sulla diminuzione dei consumi o sui disoccupati. Ogni numero qui indica una persona, una vita finita. Apparentemente “utilizzata” per dimostrare, per l’ennesima volta, la gravità della Grande Crisi, ma in realtà citata perché (già) c’è la Grande Crisi. Fuor di recessione i suicidi per motivi economici (che possono sempre accadere) non farebbero notizia. In recessione fanno notizia. Anzi: (pessima) letteratura. La narrazione letteraria, tragica, della Grande Crisi. Un genere di consumo che non accresce consapevolezza, ma alimenta ansia e tensione sociale (si pensi alla vicenda Equitalia). La stessa ansia e tensione di cui parlano i media.

 

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