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La situazione dei diritti umani nel mondo

Pubblichiamo di seguito l'introduzione del Rapporto annuale 2012 di Amnesty International

Cambiamento, coraggio e conflitto sono gli elementi che hanno caratterizzato il 2011, un anno in cui moltissime persone, come non se ne vedevano da decenni, si sono ribellate in segno di protesta contro governi e altri potenti attori. Hanno protestato contro l’abuso di potere, la mancanza di accertamento della responsabilità, la crescente diseguaglianza, la povertà sempre più profonda e l’assenza di leadership a ogni livello di governo. Il contrasto tra il coraggio dei manifestanti che chiedevano i loro diritti e il fallimento della leadership nel rispondere a questo coraggio con azioni concrete per costruire società più forti, basate sul rispetto dei diritti umani, è stato dolorosamente evidente.

Inizialmente sembrava che le manifestazioni e i disordini fossero limitati ai paesi dove lo scontento e la repressione erano prevedibili. Ma con il passare dei mesi, è stato chiaro che il fallimento dei governi nel garantire la giustizia, la sicurezza e la dignità umana stava alimentando le proteste in tutto il mondo. Da New York e Mosca, a Londra e Atene, da Dakar e Kampala a La Paz e Cuernavaca, da Phnom Penh a Tokyo, la gente è scesa nelle strade.

In Medio Oriente e Africa del Nord, la scintilla iniziale nata dall’indignazione e dalla disperazione di un giovane tunisino ha alimentato la rabbia di migliaia di manifestanti, una rabbia che ha travolto il paese e fatto cadere il governo del presidente Ben ‘Ali. I governi occidentali sono stati presi alla sprovvista dalla diffusione delle proteste nella regione. Sapevano che l’indignazione dei manifestanti per la repressione e la mancanza di opportunità economiche era ben fondata, ma non volevano perdere la loro “relazione speciale” con governi repressivi nei quali vedevano una protezione contro l’instabilità di una regione strategica con riserve significative di petrolio e gas.

Le risposte dei governi alle proteste pacifiche nella regione sono state brutali e spesso hanno avuto esiti letali. Il numero delle persone uccise, ferite o imprigionate per aver esercitato i loro diritti è cresciuto progressivamente. Decine di migliaia sono state sfollate e alcune hanno intrapreso un pericoloso viaggio attraverso il mar Mediterraneo in cerca di riparo. Lo spettro di un ingente numero di rifugiati provenienti dall’Africa del Nord ha aumentato il ricorso a una retorica xenofoba da parte di alcuni politici europei.

In Egitto, è passato più di un anno da quando l’ex presidente Hosni Mubarak si è dimesso e il Consiglio supremo delle forze armate (Supreme Council of Armed Forces – Scaf) ha assunto il controllo di quello che aveva promesso sarebbe stato un ruolo di transizione. Molti ritengono che lo Scaf abbia istigato alla violenza o fallito nel prevenirla, per legittimare l’idea che solo uno stato retto dai militari sia abbastanza forte da garantire la sicurezza.

Ma probabilmente ciò che è più preoccupante in Egitto è che oltre 12.000 civili sono stati perseguiti dai militari o sono stati portati di fronte alla magistratura militare, più che durante i 30 anni di governo di Mubarak. L’abolizione della legge d’emergenza, uno dei maggiori strumenti di abuso, è stata una richiesta chiave dei manifestanti. Tuttavia il governo ad interim, come il governo Mubarak, ha rivendicato la necessità di poteri speciali per garantire la sicurezza.

Un’altra pratica ereditata dal governo Mubarak è lo sgombero forzato delle persone che vivono negli insediamenti informali. La maggior parte dei morti durante la “rivoluzione del 25 gennaio” apparteneva alle comunità emarginate, incluse quelle che vivevano negli insediamenti precari o informali. Gli egiziani hanno vissuto per decenni con un modello di sicurezza proposto dal governo; meritano di meglio.

Le donne in particolare hanno pagato un duro prezzo sotto il governo militare. A marzo 2011, alcune giovani donne che stavano manifestando a piazza Tahrir sono state arrestate dalle forze di sicurezza e sono state poi sottoposte a “test di verginità” forzati e minacciate dai militari. A dicembre, una corte amministrativa egiziana ha giudicato questa pratica illegale e ha ordinato che le detenute non venissero più sottoposte a “test di verginità” forzati. Questo è stato un passo positivo ma c’è ancora molta strada da fare per la promozione dei diritti delle donne e l’uguaglianza tra i sessi, anche se le donne hanno giocato un ruolo centrale nelle manifestazioni. Quando Amnesty International ha chiesto ai diversi partiti politici in Egitto di impegnarsi per proteggere i principi base dei diritti umani come la libertà di espressione e di riunione, l‘abolizione della pena di morte, la libertà religiosa, la non discriminazione e l’uguaglianza di genere, i due partiti che hanno ottenuto la maggioranza nelle elezioni parlamentari non sono stati all’altezza del loro ruolo. Il partito dei Fratelli musulmani, Libertà e giustizia, che ha ottenuto 235 seggi (47 per cento) non ha risposto alla richiesta di Amnesty International. Il partito salafita Al-Nur (La luce), che è arrivato secondo con 121 seggi (24 per cento) si è rifiutato di promuovere i diritti delle donne o l’abolizione della pena di morte.

In Libia, il colonnello Mu’ammar al-Gaddafi ha risposto alle proteste di piazza promettendo di annientare i manifestanti, che ha chiamato ripetutamente “topi”. Lui e suo figlio, Saif al-Islam, in precedenza il “paladino delle riforme in Libia”, hanno dichiarato guerra a tutti coloro che consideravano infedeli al regime. Il deferimento senza precedenti da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite della Libia alla Corte penale internazionale ha inviato un segnale forte sull’importanza dell’accertamento della responsabilità. Ciò nonostante, il paese è finito nel vortice di un conflitto armato. A ottobre, nel momento in cui Mu’ammar al-Gaddafi veniva ucciso, dopo essere stato catturato, le sue forze avevano rapito e torturato migliaia di combattenti dell’opposizione e altri detenuti. Centinaia di migliaia di persone sono fuggite dal conflitto, causando sfollamenti di massa. La Libia resta instabile: il Consiglio nazionale di transizione non ha l’effettivo controllo del paese e continuano le torture, le esecuzioni extragiudiziali, altre forme di rappresaglia e sfollamenti forzati.

L’Iran ha continuato il giro di vite iniziato dopo le elezioni del 2009 e ha dimostrato la volontà di arrestare praticamente chiunque fosse identificato come oppositore del presidente Ahmadinejad. Il governo controlla da vicino i mezzi di comunicazione, i giornali sono proibiti e i siti web e i canali delle televisioni satellitari straniere bloccati. Le manifestazioni contro le politiche governative vengono disperse con la violenza e coloro che esprimono critiche verso il governo sono arrestati arbitrariamente e imprigionati. Nonostante questo, le persone continuano a difendere il loro diritto alla libertà di espressione.

Il mondo è stato testimone di questo modello di protesta e delle risposte letali nei diversi paesi. In Bahrein, il governo ha represso i manifestanti, con l’appoggio della forza militare dell’Arabia Saudita. A giugno, la segretaria di stato americano Hillary Clinton ha reiterato il sostegno degli Usa al paese, definendo il Bahrein un “partner importante”, nonostante la schiacciante evidenza dell’uso da parte del governo della forza letale contro i manifestanti pacifici, dell’imprigionamento e della tortura dei leader dell’opposizione. Questo suo giudizio pacato rifletteva il desiderio del governo americano di assicurarsi che il Bahrein continuasse a essere la base della sua Quinta flotta, anche se questo significava ignorare gravi violazioni dei diritti umani.

In Yemen, anche il presidente Ali Abdullah Saleh si è rifiutato di lasciare il potere perfino dopo essere stato gravemente ferito in un attentato dinamitardo. Ha fatto più volte marcia indietro dopo aver concluso accordi per il trasferimento del potere, nonostante imponenti manifestazioni nel paese chiedessero le sue dimissioni. Alla fine, a novembre, ha ceduto il potere in cambio dell’immunità per i crimini commessi sotto il suo governo e durante le rivolte contro di lui. Ali Abdullah Saleh ha lasciato il potere nelle mani del suo vicepresidente Abd Rabbu Mansour Hadi, che si è insediato durante le elezioni del febbraio 2012, nelle quali non ci sono stati effettivi sfidanti.

In Siria, il presidente Bashar al-Assad si è aggrappato al potere con ostinazione, a dispetto della vasta rivolta popolare contro il suo governo repressivo. Migliaia di civili sono stati uccisi o feriti e molti altri sfollati. L’uso dei carri armati da parte dell’esercito siriano per bombardare la città di Homs ha dimostrato il completo disprezzo per le vite dei residenti. Membri dell’esercito siriano che hanno disertato e lasciato il paese riferiscono di aver ricevuto l’ordine di uccidere le persone che stavano manifestando pacificamente o, in alcuni casi, che stavano solo camminando per strada. Il Relatore speciale del Segretariato generale delle Nazioni Unite per i minori e i conflitti armati ha riferito, a febbraio 2012, che centinaia di minori sono stati uccisi durante le rivolte e bambini anche di 10 anni sono stati arrestati, detenuti e torturati.

La comunità internazionale ha un ruolo cruciale da giocare nel garantire giustizia e sicurezza per la popolazione della regione. Tuttavia, finora, l’azione internazionale è stata largamente inadeguata.

POTERE, RESPONSABILITÀ E ACCERTAMENTO DELLA RESPONSABILITÀ

La comunità internazionale ha fatto fatica a rispondere in modo adeguato. Paura, opportunità, ipocrisia e buone intenzioni sono stati tutti elementi del dibattito.

Nel 2011, la Lega araba è stata sotto i riflettori perché ha cercato di risolvere alcune situazioni in diversi paesi della regione. Il suo sostegno alla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla Libia è stato cruciale per assicurare che nessuno dei cinque membri permanenti ponesse il veto. Ma senza dubbio, in contrasto con il timore di alcuni dei suoi membri che le proteste potessero diffondersi nei loro paesi, questo organismo regionale non è riuscito a mettere fine alla repressione e alla brutalità.

Con il deteriorarsi della situazione in Siria, la Lega araba ha pianificato una missione di monitoraggio nel paese. Ma la legittimità della missione è stata immediatamente messa in discussione, quando il generale Mohammed Ahmed Mustafa al-Dabi, ex capo dell’intelligence militare del Sudan, è stato messo a capo della stessa. Sotto il controllo di al-Dabi l’intelligence militare si è resa responsabile di arresti arbitrari e detenzioni, di sparizioni forzate e torture di numerose persone in Sudan. La missione ha sospeso le sue attività a fine gennaio 2012, perché la violenza ha reso impossibile il lavoro degli osservatori. Un successivo tentativo di far entrare una missione di peacekeeping è ugualmente fallito. A fine febbraio, l’ex Segretario generale Kofi Annan è stato nominato inviato della Coalizione delle Nazioni Unite e della Lega araba sulla crisi siriana.

Quando la Lega araba ha chiesto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di adempiere al suo ruolo di mantenimento della pace e della sicurezza a livello internazionale, la Russia e la Cina, facendo riferimento al principio di sovranità nazionale, hanno posto il veto a una risoluzione che richiedeva la fine della violenza e le dimissioni del presidente al-Assad. La Russia ha inoltre giustificato il veto criticando l’intervento della Nato in Libia, andato oltre il suo mandato di protezione dei civili.

Non c’è niente di nuovo nel vedere utilizzato il potere di veto per minacciare la pace e la sicurezza internazionale. La Russia (in precedenza l’Urss) e gli Stati Uniti hanno posto più di 200 veti tra di loro, molti con chiare conseguenze politiche. Il fallimento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nell’agire concretamente nei confronti della Siria, proprio dopo il grave mancato intervento nel caso dello Sri Lanka, solleva seri dubbi se questo organismo abbia la volontà politica di salvaguardare la pace e la sicurezza internazionale. Serve anche a ricordare a quelli che chiedono la protezione delle Nazioni Unite che nel sistema internazionale di governo manca del tutto l’accertamento della responsabilità. Sembra che i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ricorrano all’argomento della sovranità nazionale quando mette il loro comportamento al riparo dai controlli o aiuta a mantenere le loro relazioni privilegiate (e redditizie) con i governi repressivi.

Dopo il veto della Russia alla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sono giunte notizie della continua vendita di armi da parte dell’azienda statale russa Rosoboronexport al governo siriano, oltre che di un accordo per vendere aerei da combattimento. Un ex revisore del ministro della Difesa siriano, che ha disertato, nel gennaio del 2012 ha riferito che la vendita di armi russe alla Siria è aumentata fortemente dall’inizio dell’insurrezione.

Forse non dovrebbe sorprendere che i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite siano anche i paesi che più commerciano in armi convenzionali. Insieme hanno totalizzato un profitto di almeno il 70 per cento di tutte le maggiori esportazioni di armi nel 2010: Usa (30 per cento), Russia (23 per cento), Francia (8 per cento), Regno Unito (4 per cento) e Cina (3 per cento). Nel mondo, il flusso irresponsabile di armi da questi cinque paesi ha causato innumerevoli vittime civili e altre gravi violazioni di diritti umani e delle leggi di guerra.

Amnesty International ha documentato come i governi dell’Europa Occidentale, gli Usa e la Russia abbiano autorizzato la fornitura di munizioni, armamenti militari e armi di polizia in Bahrein, Egitto, Libia, Siria e Yemen negli anni della brutale repressione che ha portato alle rivolte popolari. Queste esportazioni avrebbero potuto essere prevenute se gli stati responsabili delle forniture avessero tenuto fede alle loro politiche ufficiali di non esportare armi che possano contribuire a gravi violazioni dei diritti umani.

La questione rimane aperta: possono gli stessi paesi che hanno il potere di porre il veto a qualunque risoluzione del Consiglio di sicurezza essere ritenuti affidabili nel perseguire la pace e la sicurezza internazionale, quando sono anche coloro che più guadagnano dal commercio globale di armi? Finché il potere di veto è assoluto e finché non c’è alcun forte trattato sul commercio delle armi, che potrebbe impedire loro di venderle ai governi che violano i diritti umani, il loro ruolo come guardiani della pace e della sicurezza sembra condannato al fallimento.

IL FALLIMENTO DELLA LEADERSHIP DIVENTA GLOBALE

Il fallimento della leadership che ha originato e infuocato le proteste popolari in Medio Oriente e Africa del Nord non si limita solo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o a una regione.

Le proteste antigovernative si sono allargate dall’Africa del Nord in altre parti del continente. In Uganda, nonostante il divieto governativo per tutte le proteste pubbliche, disposto nel febbraio 2011, le persone sono scese in strada nelle città del paese per protestare contro l’innalzamento del prezzo del carburante e di altri beni essenziali. La polizia ha risposto con forza. Allo stesso modo in Zimbabwe e Swaziland, le autorità hanno tentato di reprimere le proteste con un uso eccessivo della forza. L’uso di armi contro i manifestanti in paesi come Burkina Faso, Malawi e Senegal ha dimostrato fino a che punto alcuni governi sono pronti a spingersi per mantenere il potere.

Anche in America Latina, la popolazione ha fatto sentire la sua voce. In Bolivia, le tensioni sociali sono in aumento con proteste su questioni economiche e sui diritti dei nativi. Quando centinaia di persone hanno preso parte a una marcia di protesta di circa 580 km da Trinidad, nel dipartimento di Beni, fino a La Paz, a metà del 2011, il presidente Morales è stato costretto ad annullare i piani di costruzione di una strada che attraversava il territorio dei nativi isiboro-sécure e il parco nazionale. I progetti violavano le garanzie costituzionali sulla consultazione anticipata e le leggi di salvaguardia ambientale. Decine di persone sono state ferite durante le manifestazioni, quando le forze di sicurezza hanno usato gas lacrimogeni e manganelli per disperdere un accampamento improvvisato lungo la marcia. In Messico, i manifestanti sono scesi più volte in strada per chiedere la fine della violenza, dell’impunità e della militarizzazione della guerra alla droga, mentre aumentavano le vittime civili.

In Russia, le proteste sono state innescate da frustrazioni legate alla corruzione, al favoritismo e a falsi processi democratici che negano alle persone l’opportunità di usare i loro voti e di far pressione per il cambiamento. Le voci dell’opposizione nell’arena politica sono state sistematicamente indebolite e l’accesso ai mezzi d’informazione tradizionali è stato negato per far in modo che Vladimir Putin non dovesse affrontare una vera opposizione alle elezioni presidenziali. Oltre al danno la beffa: Putin si è rivolto ai manifestanti definendoli “Banderlog”, come le scimmie senza legge del romanzo di Rudyard Kipling “Il libro della giungla” e paragonando il loro simbolo di protesta, un nastro bianco, a un preservativo. Tuttavia le proteste annunciano una nuova era in Russia e segnano una nuova stagione di cambiamenti per Putin e per coloro che lo circondano. Dovranno trovare il modo di far fronte a queste richieste, adesso che la riforma politica e il rispetto per i diritti umani sono stati inseriti stabilmente in agenda.

Le autorità cinesi hanno dimostrato il loro timore per la tipologia di rivolte pubbliche viste in Tunisia, agendo prontamente per prevenire le proteste. A febbraio, le forze di sicurezza si sono schierate in gran numero per evitare che piccoli gruppi diventassero una folla nelle strade di Shangai. Nonostante lo stretto controllo cinese sulle comunicazioni digitali e il flusso d’informazioni, fonti ufficiali hanno documentato migliaia di manifestazioni nel paese. Gli sgomberi forzati, sia in aree urbane che rurali, sono stati uno dei principali motivi delle proteste in Cina. In Tibet, dove il controllo è ancora maggiore, oltre una decina di monaci, hanno protestato dandosi fuoco e, a gennaio 2012, le forze di sicurezza hanno sparato e ucciso diversi manifestanti.

Anche in Myanmar le autorità hanno mostrato preoccupazione per la possibilità di rivolte pubbliche di vaste dimensioni, nonostante il loro rinnovamento e l’orientamento verso le riforme. Il governo ha permesso a Daw Aung San Suu Kyi, leader della Lega nazionale per la democrazia, di partecipare alle elezioni suppletive. Alcuni esiliati hanno fatto ritorno a casa. A metà gennaio 2012, 600 prigionieri politici sono stati rilasciati, molti hanno ripreso le loro attività d’opposizione. Tuttavia, centinaia restano dietro le sbarre, anche se è difficile verificarne il numero esatto. L’impegno preso dal governo di permettere un’opposizione politica pacifica è incoraggiante, ma bisogna ancora vedere.

DEMOCRAZIA E PERDITA DEL SENSO DI LEGITTIMITÀ

Quando le manifestazioni si sono diffuse in Medio Oriente e Africa del Nord e altri paesi dove le libertà di espressione e di riunione erano generalmente represse, la maggior parte dei governi democratici appariva fiducioso che la rivolta civile restasse “laggiù”.

In realtà, le manifestazioni si sono tenute in diverse parti del mondo e sono servite a sottolineare i limiti dei governi democratici nel promuovere e realizzare i diritti umani.

La netta linea di demarcazione che i politici hanno stabilito per cercare di distinguere i buoni dai cattivi governi sono sempre state eccessivamente semplificate. Le rivolte in Medio Oriente e Africa del Nord hanno messo allo scoperto le politiche estere egocentriche e ipocrite di stati che sostenevano di rispettare i diritti umani. Ma negli stessi paesi, politiche che hanno portato a continue crisi economiche e a un’alta tolleranza per le sempre crescenti diseguaglianze hanno rivelato il loro fallimento nel promuovere i diritti umani anche al loro interno. La xenofobia si è diffusa in tutta Europa e negli Stati Uniti, trovando nei migranti un capro espiatorio. I rom, che a lungo hanno sofferto persecuzione e marginalizzazione in tutta Europa, e altre vittime della riqualificazione delle città, hanno subito sgomberi forzati e violenza.

La risposta del governo statunitense alla crisi economica è stata quella di farsi garante di istituzioni finanziarie che erano “troppo grandi per fallire”. Ma lo ha fatto senza imporre alcuna condizione su come il salvataggio avrebbe funzionato. Persone disoccupate, impossibilitate ad avere un’assicurazione medica e che hanno subito un pignoramento rischiando di ritrovarsi senza casa, si sono sentite tradite. Come ha scritto il premio Nobel Joseph Stiglitz “le banche hanno avuto il loro salvataggio. Una parte dei soldi è andata nei bonus. Solo una parte come prestito. Alla fine i manager delle banche hanno pensato a loro stessi e hanno fatto ciò che sono abituati a fare”.

Ciò che la crisi economica ha rivelato è che il patto sociale tra il governo e i governati si era rotto. Nel migliore dei casi i governi sono stati indifferenti di fronte alle preoccupazioni della gente e nel peggiore interessati soltanto a proteggere quelli che erano al potere. I dati sulle crescenti diseguaglianze negli introiti e nei patrimoni sono stati la prova del fallimento dei governi nell’adempiere al loro obbligo di assicurare la progressiva realizzazione dei diritti economici e sociali.

Con il peggioramento della crisi in molti paesi europei, le persone sono scese in strada per manifestare contro i piani di austerità. In Grecia, video, foto, reportage e testimoni oculari hanno mostrato il continuo uso eccessivo della forza da parte della polizia nelle manifestazioni di Atene a giugno, come l’ampio uso di prodotti chimici contro manifestanti per lo più pacifici. In Spagna, la polizia ha fatto uso eccessivo della forza per fermare le manifestazioni in cui le persone chiedevano un cambiamento delle linee politiche, economiche e sociali.

Le continue proteste in Europa e America del Nord hanno mostrato che le persone hanno perso la fiducia in governi che hanno continuamente trascurato l’accertamento delle responsabilità, la giustizia e la promozione dell’uguaglianza.

SFIDARE UNA REAZIONE VIOLENTA

Mentre i manifestanti in Europa e America del Nord hanno subito violazioni della loro libertà di riunione e, in alcuni casi, l’uso illegittimo della forza da parte della polizia, che ha usato cannoni ad acqua e gas lacrimogeni, in altre parti del mondo la posta in gioco è stata ancora più alta. In Tunisia, Egitto, Yemen e Siria, i manifestanti che chiedevano la libertà sono andati incontro al rischio di morte, sparizione e tortura. Ad Homs, i manifestanti hanno affrontato carri armati, cecchini, bombardamenti, arresti e torture.

La tecnologia moderna ha imposto alcune limitazioni alla polizia, a cui veniva ricordato di continuo che le persone potevano utilizzare i telefoni cellulari per registrare gli episodi di brutalità degli agenti e caricarli sui social network in un istante. Di conseguenza, la polizia ha fatto del suo meglio per rafforzare il controllo sui mezzi d’informazione, intimidire i manifestanti, usare gas lacrimogeni, spray al peperoncino e manganelli. Con una mossa particolarmente originale, le autorità di New York hanno rispolverato una legge del XVIII secolo, che proibiva di indossare maschere, per usare la mano pesante contro manifestanti per lo più non violenti.

Se c’è un filo che lega le manifestazioni di piazza Tahrir, Zuccotti Park o piazza Manezhnaya è la velocità con cui hanno agito i governi per prevenire proteste pacifiche e limitare il diritto alla libertà di espressione e associazione.

LA CRESCITA DEL POTERE DELLE CORPORAZIONI

Pochi scenari illustrano la mancanza di leadership più del fallimento dei governi nel regolare le attività delle grandi aziende, in particolare delle corporazioni multinazionali che spesso traggono profitto a spese delle comunità locali. Dalla Shell nel Delta del Niger, in Nigeria, al Vedanta Resources nell’Orissa, in India, i governi non sono riusciti a garantire che gli attori delle multinazionali rispettassero almeno i diritti umani. In molti paesi, milioni di persone hanno subito sgomberi forzati quando compagnie minerarie sono arrivate per sfruttare le risorse naturali.

Compagnie digitali e di comunicazione sono soggette a maggiore controllo dopo aver accettato le richieste dei governi di conformarsi a leggi palesemente illegali che violano i diritti umani, inclusi i diritti alla libertà di espressione, informazione e privacy. Ci sono prove che aziende, che apparentemente si dedicano (e ne traggono benefici) all’espressione e alla condivisione delle opinioni, incluse Facebook, Google, Microsoft, Twitter, Vodafone e Yahoo, stanno collaborando ad alcune di queste violazioni.

Le minacce alla libertà di espressione su Internet, emerse con evidenza nel contesto delle rivoluzioni dei diritti umani, non sono nuove. Amnesty International ha da tempo documentato che i governi, come quelli di Cina, Cuba e Iran, non rispettano la libertà di espressione e altri diritti collegati alla rete. Anche leggi introdotte di recente dal congresso degli Stati Uniti e in Europa minacciano la libertà su Internet.

Il mancato accertamento delle responsabilità a ogni livello di queste corporazioni e istituzioni da parte dei governi sottolinea ancora una volta come i governi stessi lavorino per sostenere quelli che sono al potere, piuttosto che per dare potere a quelli che non lo hanno.

ALLA RICERCA DI UNA LEADERSHIP

Ciò che è emerso durante un anno di rivolte, transizioni e conflitti è stato l’eccezionale fallimento delle leadership a livello nazionale e internazionale. Esponenti di governi repressivi, che respingono il concetto di universalità dei diritti umani e sostengono che i diritti umani siano valori occidentali che vengono loro imposti, sono stati smascherati e lo stesso vale per quei governi che hanno sostenuto la tesi che le persone in alcuni paesi “non sono pronte per la democrazia e i diritti umani”.

Allora, in che modo i governi possono rivendicare il loro ruolo di leader legittimi?

Innanzitutto, l’ipocrisia deve finire. Nessuno stato può legittimamente affermare che le persone che governa non sono pronte per i diritti umani e per un sistema di governo partecipativo. E quegli stati che pretendono di difendere i diritti umani devono smetterla di sostenere leader dittatoriali come loro alleati. Il grido di libertà, giustizia e dignità sentito in tutto il mondo deve essere onorato. Il primo passo per farlo è che tutti gli stati rispettino la libertà di espressione e il diritto di manifestare pacificamente.

Inoltre, gli stati devono assumersi seriamente le loro responsabilità come attori internazionali, in particolare quelli incaricati di garantire la pace e la sicurezza nel mondo. Un esempio di tale impegno sarebbe adottare un forte trattato sul commercio delle armi.

A luglio 2012, gli stati membri delle Nazioni Unite si incontreranno per accordarsi sul testo finale del trattato. Un documento forte riuscirebbe a prevenire il trasferimento a livello internazionale di tutti i tipi di armi convenzionali, incluse piccole armi, armi leggere, munizioni e componenti chiave, verso paesi dove esiste il serio rischio che tali forniture siano usate per commettere gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Per ottenere ciò, questo trattato dovrebbe richiedere ai governi di condurre indagini rigorose sui rischi per i diritti umani, prima di emettere licenze per l’esportazione di armi. Ciò dimostrerebbe che i governi danno più valore a diritti umani, pace e sicurezza nazionale che a convenienze politiche e ai profitti del commercio di armi. Un forte trattato sul commercio delle armi è così vicino a diventare realtà perché attivisti, difensori dei diritti umani e singole persone, a livello nazionale, regionale e internazionale, che riconoscono l’assurdo prezzo pagato a causa del commercio irresponsabile di armi, hanno chiesto che i governi affrontassero questo problema.

Infine deve essere introdotto un maggior controllo, soprattutto sulle istituzioni finanziarie, per prevenire il tipo di crisi economica che nel mondo continua a far sprofondare molte persone nella povertà. Controlli deboli e deregolamentazione hanno permesso alle banche e alle compagnie ipotecarie di perdere i risparmi della gente e le loro case.

I leader devono comprendere la necessità di costruire e mantenere un sistema che protegga coloro che non hanno potere e controlli i potenti, un sistema basato sulla supremazia della legge che assicuri la fine dell’impunità e il rispetto degli standard internazionali su procedimenti corretti, processi equi e indipendenza della magistratura, un sistema dove i leader ricordino che occupano quel posto per fare il migliore interesse dei cittadini. Creare un ambiente che permetta a tutti di avere un reale accesso alla partecipazione alla vita politica, dove ci sia un forte sostegno istituzionale all’impegno della società civile, è un modo chiaro per fare sì che questa visione metta radici.

Il movimento Amnesty International si basa sulla consapevolezza che la libertà di espressione e la capacità di sfidare i governi e chiedere che rispettino, proteggano e mantengano i diritti umani sono elementi essenziali per creare un mondo dove tutte le persone vivano libere e uguali in dignità e diritti. I manifestanti hanno lanciato una sfida chiedendo ai governi di mostrare la loro leadership promuovendo diritti umani, giustizia, uguaglianza e dignità. Il mondo ha mostrato che i leader che non rispondono a queste aspettative non saranno più accettati.

 

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