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Gli effetti della troppa politica nel troppo (poco) libero mercato

di Marco Perazzi

Il pantano in cui si è arenata dal 2008 l’economia occidentale, con gli strascichi sociali che ne sono conseguiti, nonché gli imbarazzi e le timidezze mostrate dai governanti nel definire una exit strategy dallo stallo finanziario hanno riportato di attualità le riflessioni su quali modelli di crescita siano effettivamente sostenibili e su quali basi debbano essere riproposti o riformulati quelli per il futuro.
Per quanto appaiano ancora poco nitidi gli scenari di breve periodo e benché siano lungi dal venir sciolti i nodi da affrontare, una tesi in particolare sembra che vada comunque affermandosi più di altre nell’individuare colpevoli e soluzioni. La tesi in questione è quella bene espressa e descritta già sulle pagine di T-Mag dal suo direttore e che mette sul banco degli imputati l’eccesso di liberismo e la colpevole latitanza della politica negli ultimi anni, legati tra loro in un rapporto di causa-effetto.
Nel riappropriarsi del proprio ruolo da parte della politica starebbe dunque, per conseguenza, la possibile risposta e soluzione ai problemi creati dagli eccessi del mercato.
Nel partire da questa affermazione per lo svolgimento di ogni successiva legittima considerazione, vi è tuttavia il difetto di esaurire troppo frettolosamente la fase di analisi, sovrapponendola direttamente a quella del giudizio; vi è difatti, a ben guardare, un vizio di fondo che consiste nell’aver assunto che le distorsioni del mercato sono il frutto di un’assenza dell’intervento politico.
Perché si possa dire che è stato il libero mercato, lasciato a sé stesso, a degenerare in derive che non rispondono agli interessi generali, bisogna per coerenza asserire che il libero mercato possiede e rappresenta effettivamente degli interessi particolari, confliggenti con altri. Il libero mercato, in realtà, per quanto articolato in infiniti corollari di crescente complessità tecnica e teorica, non è che un meccanismo impersonale per la collocazione efficiente delle risorse, una forma di organizzazione per regolare la produzione, lo scambio e la distribuzione nell’economia; forma di organizzazione che si struttura sulla principale motivazione, cioè l’interesse individuale, che spinge i comportamenti economici.
Chi invoca l’intervento della politica per riequilibrare gli interessi assume che il compito di essa sia quello di agire nell’interesse di tutti e virtuosamente (nell’ipotesi per altro che una virtuosità di principio sia realmente definibile ed identificabile). La politica, invece, ha la sua ragione di essere nel rappresentare quote di interesse, ricevendo da quelle maggioritarie il mandato ad agire secondo precise indicazioni.
Il confronto tra visioni anche diverse sul ruolo che la politica deve esercitare nell’economia deve perciò partire quantomeno da ciò che è una constatazione di fatto: il mercato è uno strumento secondo cui si regola l’economia nel sistema; la politica è il gestore del sistema.
Il mercato-strumento, quindi, non può assegnarsi da sé quote più o meno grandi di libertà ed autonomia di azione poiché queste dipendono dalle scelte del gestore politico. Perché regga l’accusa di chi denuncia le colpe del mercato per gli effetti distorsivi in esso verificabili, occorre assumere che il mercato ha facoltà endogene ed interessi ad auto distorcersi.
Simmetricamente, perché regga l’accusa alla politica di non operare in senso correttivo, occorre ammettere che gli interventi della politica sono di per sé correttivi. Quali sono questi effetti distorsivi, diffusamente percepiti e condannati?
Citiamone qui almeno tre, avvertiti come i più odiosi:

1 – la delocalizzazione spinta delle produzioni industriali;
2 – la cupidigia fraudolenta dei banchieri che, dopo aver intascato lauti profitti, socializzano le perdite;
3 – l’occulta regia della finanza internazionale che condiziona la libertà dei popoli.

Chiediamoci dunque: nella delocalizzazione spinta delle industrie verso Paesi con condizioni più favorevoli all’investimento, quanto la politica è stata davvero assente nella genesi di tali condizioni e quanto il mercato ha avuto invece la capacità di pre-costituirsele? Come si sposa la logica del mercato (profitti e perdite proporzionali al grado di rischio assunto) con quanto avvenuto per molte banche che hanno assunto alti rischi in vista di enormi profitti ma con la certezza di non rispondere col proprio capitale in caso di perdita? E per converso, rappresenta una correzione del mercato l’intervento politico di salvataggio delle banche colpevolmente ritrovatesi più esposte alle perdite? La crescente liberalizzazione dei mercati finanziari ha certamente agevolato l’accesso al credito, per cittadini e Stati; il livello degli impegni assunti da questi ultimi verso il proprio creditore è però il frutto delle scelte politiche ed economiche dei governi.
Per un imprenditore che persegue legittimamente il proprio interesse ricercando il profitto, la scelta di de localizzare la propria produzione non può non tener conto delle condizioni vantaggiose offerte da un minor costo della manodopera o da infrastrutture logistiche di contorno più efficienti; per converso è ragionevole aspettarsi che egli fugga da contesti inefficienti o particolarmente penalizzanti rispetto alle alternative disponibili. Le scelte, quali esse siano, che hanno condotto all’inefficienza o all’efficienza i sistemi in competizione e tra di loro alternativi, sono equivalentemente da ricondurre alle decisioni politiche prese dai governati responsabili di quei contesti: banalmente, all’origine delle decisioni di alcune aziende di delocalizzare le proprie produzioni verso Paesi altri, vi è la scelta comunque politica del governo del Paese verso cui si de localizza di rendere competitiva rispetto alle altre la manodopera dei propri cittadini; il mercato, anziché agire da fattore condizionante, altro non fa che suggerire all’imprenditore le strategie più opportune nello sfruttare le condizioni da altri create.
I piani di salvataggio delle banche messi in atto da molti dei principali governi occidentali (a cominciare da quello repubblicano di Bush) non hanno certo rimediato a un lassismo liberista, ma sono intervenuti semmai appena prima che le regole del mercato, autoapplicandosi, punissero i comportamenti “meno virtuosi”.
Il ruolo svolto dalle banche centrali di “prestatori di ultima istanza”, che ancora si invoca a gran voce da più parti, alimenterà ancor più in futuro, è facile prevedere, condotte spregiudicate da parte delle banche private; la pericolosa eredità che ci lasceranno i politici che hanno governato l’ultima crisi consiste proprio nell’aver seminato la cultura del moral hazard, in virtù di una certezza di impunità per le eccessive assunzioni di rischio che il mercato, diversamente, non avrebbe lasciato impunite. Ed infine, detto già delle scelte politiche che stanno alla base dell’esplosione dei debiti sovrani, val la pena ricordare l’ammonimento di Thomas Jefferson nel 1821 quando, rivolgendosi al Congresso Americano, paventava il pericolo per le generazioni future di perdere la propria libertà, schiacciate dal debito lasciato dalle generazioni precedenti che le avrebbe rese schiave dei loro creditori.
Occorre quindi riflettere più attentamente non tanto su presunte proprietà salvifiche del libero mercato, che nemmeno i suoi più convinti sostenitori si permettono di assegnargli, bensì su quali e quanti effetti distorsivi sul mercato siano invece imputabili proprio ed esclusivamente all’intervento, questo sì a volte eccessivo, della politica stessa.

 

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