Crisi. Il rigore ammala l’Europa | T-Mag | il magazine di Tecnè

Crisi. Il rigore ammala l’Europa

di Carlo Buttaroni

Il premio Nobel dell’Economia Paul Krugman e Richard Layard, direttore di un centro studi della London School of Economics, hanno pubblicato nei giorni scorsi un manifesto (manifestoforeconomicsense.org), dove viene espressa una critica forte e radicale alle politiche di rigore e austerità sinora adottate. L’assunto di partenza è un’evidenza: sono passati più di quattro anni dall’inizio della crisi, ma le principali economie del mondo continuano a restare profondamente depresse. La causa di tutto ciò? La sostanziale incapacità dei decisori istituzionali di comprenderne le cause, adottando politiche fiscali che rischiano di prolungare – e forse aggravare – la crisi.
Krugman e Layard sostengono che i grandi disavanzi pubblici sono una conseguenza della crisi e non la sua causa, che trae origine, invece, da un eccessivo indebitamento privato. Nel momento in cui la situazione è esplosa, il settore privato ha tagliato la spesa nel tentativo di ripagare i debiti contratti nel passato e ciò ha portato a massicce cadute della produzione. Se si considera che la spesa di una persona rappresenta il reddito di un’altra, il taglio della spesa privata ha ridotto, di conseguenza, le entrate derivanti dal gettito fiscale facendo crescere il debito pubblico.
Le politiche economiche – secondo Krugman e Layard – dovevano andare in direzione opposta al rigore e al contenimento della spesa proprio perché, in un momento in cui il settore privato è impegnato in uno sforzo collettivo per spendere meno, le politiche pubbliche dovevano agire per sostenere e stabilizzare la spesa. O, per lo meno, non avrebbero dovuto peggiorare la situazione con massicci tagli e importanti aumenti delle aliquote fiscali a carico dei cittadini. Le politiche restrittive, invece, si sono sommate agli effetti dei tagli alla spesa privata, innescando una spirale negativa sull’economia.
L’esperienza passata – ricordano i due economisti – non riporta tagli alla spesa pubblica che hanno generato una crescita dell’attività economica. Al contrario, il Fondo Monetario Internazionale ha studiato 173 casi di tagli di bilancio, realizzati in singoli paesi, scoprendo che l’effetto prodotto è stato quasi sempre una contrazione economica. Nei pochi casi in cui c’è stata una crescita, ciò è dipeso da un deprezzamento della valuta nei confronti di un mercato mondiale forte. Una possibilità che al momento non è pensabile, soprattutto per quanto riguarda l’euro. Una lezione importante quella che si apprende dallo studio del FMI: i tagli al bilancio rallentano la ripresa. E questo è ciò che sta accadendo ora, tanto che i paesi con politiche più restrittive hanno avuto cadute più pesanti dell’output.
Krugman e Layard fanno anche notare che gli eccessivi tassi d’interesse sulle obbligazioni, che riguardano soprattutto alcuni paesi dell’eurozona, non dipendono dal deficit pubblico, ma dal fatto che la Banca Centrale Europea non può agire come prestatore di ultima istanza per i governi e non può finanziare il deficit lasciando in equilibrio il mercato obbligazionario.
In tutti i principali paesi con una banca centrale normalmente funzionante, anche in presenza di deficit eccezionalmente elevati, i tassi di interesse restano bassi. In Giappone, per esempio, il debito pubblico supera il 200% del PIL annuo; ciononostante, i tassi d’interesse non sono elevati e anche il declassamento da parte delle agenzie di rating non sortisce effetti rilevanti.
In molti paesi – concludono i due economisti – i politici stanno infliggendo sofferenze enormi ai loro popoli ed è inaccettabile che tale situazione dipenda da errori di conoscenza delle cause della crisi e che lo spauracchio dei tassi d’interesse pesi più delle conseguenze drammatiche di una disoccupazione di massa.
L’economia, si sa, non è una scienza esatta, e deduce dai fatti le sue teorie. Semmai ce ne fosse stato bisogno, ce ne siamo accorti nel momento in cui gli imponenti apparati di controllo non avevano previsto né l’inizio, né la durata della crisi. C’è molto su cui riflettere partendo dai ragionamenti di Krugman e Layard. Le loro tesi, con particolare riferimento ai rischi di politiche pubbliche restrittive, sono condivise da moltissimi economisti.
Per tornare al nostro Paese, è bene ricordare che negli ultimi 12 mesi sono state varate manovre e fatti interventi di riduzione della spesa pubblica equivalenti a centinaia di miliardi euro. La crisi ha spinto a realizzare riforme strutturali che hanno riguardato ambiti strategici come le pensioni e il mercato del lavoro. Il tutto, però, sembra non aver prodotto risultati apprezzabili, né sui bilanci pubblici né sui mercati finanziari. Infatti, benché il nostro paese abbia l’avanzo primario migliore tra i paesi dell’eurozona (cioè la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito: circa il 3% quest’anno e oltre il 4% previsto l’anno prossimo), il debito pubblico continua a crescere (nel primo trimestre 2012 è arrivato al 123,3% del PIL). E lo spread – cioè il differenziale dei tassi d’interesse con i titoli tedeschi – continua a restare a un livello di alto rischio. Detto questo ci si domanda: le manovre attuate finora erano effettivamente ciò che serviva per uscire dalla crisi? Un quesito che comunque non è indirizzato solo all’Italia. Il manifesto di Krugman e Layard, infatti, oltre a criticare le politiche restrittive dei governi, denuncia, indirettamente, anche altro. In particolare, l’assenza di una politica comune europea che dia forza agli strumenti messi in campo per contrastare il deterioramento economico e gli attacchi speculativi. Le incertezze legate allo scudo anti-spread sono un chiaro segnale della malattia che affligge l’Europa che si traduce in un deficit di scelte e visioni comuni. Un esempio su tutti: all’indomani dell’intesa del Consiglio europeo sul fondo per calmierare lo spread, gli attacchi speculativi sono rallentati, con immediate ripercussioni sui tassi d’interesse e sulle borse, che hanno registrato risultati positivi. Quando, invece, pochi giorni dopo hanno preso corpo i dubbi di alcuni paesi rispetto all’accordo, e si sono manifestate incertezze sulla possibilità di poterne fare effettivamente ricorso, le speculazioni sono ripartite e la pressione dei mercati si è fatta di nuovo pesante.
In questi giorni la Spagna, nonostante gli ingenti tagli pubblici, è stata sottoposta a un violento attacco speculativo. Il presidente della Bce, Mario Draghi, è intervenuto sottolineando la necessità di “agire per salvaguardare l’euro”, opinione appoggiata dal governo tedesco e da quello francese. Le borse, anche in questo caso, hanno reagito positivamente.
Si può quindi affermare come, ad avere effetti positivi sulle economie, siano stati gli indirizzi politici di un’Europa unita e disposta a rivedere la linea del rigore per salvaguardare la moneta europea, non i tagli. E anche se siamo ancora molto distanti da una politica realmente comune, questi esempi presentano chiaramente gli elementi base necessari per traghettare quest’Europa malata fuori dal tunnel della crisi.
D’altra parte, la scelta tra “unirsi o dividersi” è ormai una decisione a breve termine. Ed ecco che tornano a echeggiare le parole che mettevano in luce i rischi di un’Europa con una moneta unica, ma senza una politica unitaria. Oggi si paga anche il prezzo di questa miopia.
I dati sull’interdipendenza economico-finanziaria che il mercato unico e l’euro hanno attivato nel quadro dell’Unione monetaria non lasciano dubbi sul fatto che l’Unione debba proseguire, ma la rete d’interessi e di convergenze ha necessità di politiche condivise. La prima esigenza è quella di istituzionalizzare i processi di solidarietà reciproca tra i paesi membri. Un processo che chiama in causa soprattutto la Germania, non solo perché i tedeschi sono i principali finanziatori dei fondi di salvataggio, ma perché per vent’anni hanno cercato di impedire la trasformazione dell’Unione monetaria in una vera transfer union, imponendo di fatto la clausola di no-bail out. Regola secondo la quale gli stati appartenenti alla Comunità Europea non possono farsi garanti del debito di un paese appartenente alla Comunità stessa, imponendo, tra l’altro, rigidi limiti alla possibilità d’intervento alle banche centrali e alla stessa Bce. Ogni volta che sono prese decisioni diverse rispetto a queste impostazioni, in Germania si apre un dibattito che coinvolge anche la Corte costituzionale. Il ricorso all’emissione di Eurobonds rappresenta il nodo su cui si condensano i maggiori timori tedeschi, preoccupati, più che altro, di essere trascinati in basso dalle fragilità dei partner.
Solidarietà e politiche economiche comuni versus competizione e interessi dei singoli paesi. E’ questa la sfida che l’Europa deve vincere per tracciare il percorso di uscita dalla crisi. Le regole cui è rimasta ancorata l’Unione monetaria e la prevalenza dei singoli interessi, oggi, rendono possibili solo acrobazie da parte dei governi ogni qualvolta occorre attivare un’azione a tutela dell’unione e della moneta. È giunto il momento della svolta, per dare concretezza all’edificio europeo, sviluppando a una vera e propria unità politica con l’obiettivo dell’interesse comune.
In questa fase di costruzione, i paesi dell’eurozona devono trovare gli strumenti per promuovere un piano per la crescita, lo sviluppo e l’occupazione attraverso l’attivazione di fondi indipendenti dai singoli governi. Questo perché a livello nazionale c’è un gap di risorse – per non dire, a volte, di capacità – per affrontare la questione del rilancio economico. Prima i governi capiranno che devono impegnarsi in questo senso, prima si potrà invertire il processo di degenerazione economica in corso.
Un decadimento destinato a proseguire finché non si rimetterà al centro del dibattito e delle intenzioni politiche un progetto credibile per il futuro. Un grande investimento a sostegno del lavoro e dell’occupazione potrebbe essere la base su cui costruire finalmente la vera ”Unione di fatto” e non solo di facciata com’è stato sinora.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 30 luglio. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf.

 

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