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Chi ci guadagna nella lunga crisi

di Carlo Buttaroni

L’altra faccia della crisi è in chi ci guadagna. Una contraddizione in termini per i più ma, in realtà, nulla di più concreto. Per alcuni, infatti, la situazione che stiamo vivendo è un vero affare. Pensiamo al tanto temuto spread, spada di Damocle per banche e imprese: esso misura sì lo stato di salute economica dei paesi dell’eurozona (Grecia, Spagna e Italia in testa), ma rappresenta anche una straordinaria opportunità di arricchimento per i grandi investitori. Chi ha, infatti, elevate quantità di denaro liquido può farle fruttare molto più che in altri periodi, ad esempio prestando il proprio denaro a tassi d’interesse più alti. Oppure, sfruttando la crisi della liquidità che colpisce stati e imprese, si possono fare affari straordinari acquistando grandi società e patrimoni immobiliari a prezzi molto più bassi rispetto al loro valore reale.
Gli speculatori finanziari rappresentano un’altra categoria favorita dal momento attuale: quasi una realtà mitologica che li vede come protagonisti senza volto delle nostre vite che fanno tavole rotonde via skype per decidere come distruggere l’economia reale. I veri, grandi speculatori non sono tantissimi: una ventina, forse meno, in tutto il mondo. Ma con un potere molto forte: quello di indebolire fino al collasso l’economia di un paese, di far perdere valore a una moneta, di mettere in ginocchio i governi, di far crollare le borse, di spingere alle stelle i prezzi delle materie prime, di portare al fallimento grandi società. Come i cacciatori, scelgono con cura la loro “preda”, pianificano l’attacco e colpiscono con chirurgica precisione, spostando enormi quantità di capitali da un luogo all’altro del pianeta premendo semplicemente un pulsante. Applicano le loro strategie di aggressione sfruttando i molti coni d’ombra delle legislazioni nazionali, la paura dei piccoli risparmiatori e soprattutto le debolezze politiche dei governi e degli organismi internazionali.
Ci sono anche gli speculatori più piccoli, ma non per questo meno agguerriti e potenti. Essi si muovono agendo nei termini che la legge gli consente come, ad esempio, vendere ciò che, in realtà, non hanno. Se nella vita reale qualcuno vendesse qualcosa che non possiede (un’automobile o un appartamento) sarebbe considerato un truffatore. In termini finanziari si chiama, invece, short selling – vendita allo scoperto – e in alcuni paesi, tra i quali l’Italia, è una pratica legale.
Chi vende allo scoperto scommette sul ribasso successivo dei titoli, delle azioni o dei beni che offre. In pratica, il venditore mette sul mercato un prodotto (che in realtà non possiede) al prezzo di quello specifico momento (per esempio 100). Poco dopo acquista da chi ha realmente il titolo, l’azione o il bene quando il prezzo è sceso (per esempio 80), incassando la differenza tra il prezzo di vendita e quello di acquisto. Quella dello speculatore non è, però, una puntata al buio, sul ribasso futuro del titolo. In realtà immette sul mercato grandi quantità del prodotto che offre, per spingerne il valore ulteriormente in basso, alimentando la paura dei piccoli risparmiatori che, per timore di una perdita, si affrettano a vendere a prezzi inferiori rispetto alla quotazione di partenza. Ecco perché speculazione e crisi si alimentano a vicenda.
Totalmente diversa la situazione della fetta più ampia della popolazione, che con la crisi è costretta a stringere la cinghia essendo diventata drasticamente più povera. Enormi quantità di ricchezza stanno, infatti, rapidamente passando da un’ampia fascia di popolazione a medio e basso reddito a una cerchia più ristretta ad altissimo reddito. In sostanza, con la crisi, chi stava molto bene adesso sta ancora meglio mentre tutti gli altri stanno decisamente peggio. La forbice socioeconomica, cioè, si è ampliata e la piramide della ricchezza, oggi, ha una base più ampia rispetto al passato e un vertice notevolmente più stretto. Circa otto milioni di italiani, in questo momento, vivono in condizioni di povertà. Secondo l’Istat, i poveri rappresentano l’11% della popolazione e sono concentrati soprattutto nel Mezzogiorno (il 23%, contro il 5% del Nord e il 6% del Centro).
Ciò che maggiormente preoccupa, però, è la linea di demarcazione tra i poveri e i non poveri: sempre più sottile e sempre meno visibile. Basta la perdita momentanea del lavoro, la cassa integrazione o il sopraggiungere di una malattia per compromettere seriamente questo già fragile equilibrio. Avere un lavoro non protegge più dai rischi dell’impoverimento. Oggi, circa il 10% degli occupati è sotto la soglia della povertà. Sono quelli che le statistiche definiscono i “poveri che lavorano”. D’altronde, quasi 14 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese, e, di questi, circa 7 milioni hanno uno stipendio inferiore ai 1.000 euro al mese. Ultimi tra gli ultimi sono sempre i giovani: se sono fortunati, hanno un lavoro precario e spesso mal retribuito.
Lo spettro della povertà, che ha sempre riguardato categorie “tradizionali” come i pensionati, i disoccupati e i sottoccupati, si sta ampliando a macchia d’olio travolgendo fasce di popolazione finora considerate al riparo dalle turbolenze dei mercati come, ad esempio, il grande corpo del ceto medio.
Dopo anni di crescita che ha cambiato persino i tradizionali riferimenti di “classe sociale” del nostro paese, impiegati, commercianti, dirigenti e professionisti sono travolti dall’onda anomala della crisi e dalla conseguente messa in discussione degli standard di vita che sembravano acquisiti per sempre. Le prime conseguenze di questo effetto domino sono rappresentati dalla perdita di ruolo, dalla diminuzione del potere di acquisto, dalle incertezze rispetto al futuro. In quella che, per anni, è stata la spina dorsale dell’Italia si diffonde un sentimento di pessimismo dovuto all’abbandono dei luoghi sociali abitati per anni, dove milioni di persone hanno costruito le proprie esistenze. Un sentimento che si trasforma in disillusione politica e che assume i caratteri di un vero e proprio tradimento nel momento in cui, dopo tante parole, nessuno si occupa più di loro. Ed è comprensibile. Perché il ceto medio paga, più di altre fasce di popolazione la mancanza di seri interventi a favore della famiglia e subisce direttamente le debolezze del nostro paese: nelle infrastrutture, nell’istruzione, nella ricerca, nei servizi. I nostri tradizionali punti di forza (la capacità di adattamento, i processi d’imprenditorialità diffusa, le strategie d’impresa, la rete di welfare familiare, la qualità della vita dei territori) ormai non riescono a sopperire ai deficit che abbiamo accumulato. Soprattutto nel momento in cui il nostro sistema politico si mostra prigioniero di se stesso e senza alcuna good reputation da spendere in campo internazionale, sostanzialmente incapace di governare i processi che prendono corpo in basso (avendo lasciato il campo al primato del mercato) e in alto (dove inevitabilmente prevale il potere finanziario). E così l’economia virtuale schiaccia progressivamente l’economia reale. Continuare a pensare che i poteri finanziari disegnino lo sviluppo è un’illusione, perché lo sviluppo si fa solo con le idee e con le mobilitazioni collettive. E, soprattutto, se si è in grado di governarne i processi con la politica.
Il rischio è, invece, che la crisi diventi il terreno di coltura di tensioni e di conflitti sempre più aspri, alimentati dalle diseguaglianze e dall’emarginazione sociale.
Per questo motivo c’è bisogno di più politica. Lo si intuisce nelle forme auto-organizzate ed eterodirette dei nuovi aggregati sociali capaci di supplire alle carenze del welfare (asili nido, mense scolastiche, esperienze mutualistiche) e nella partecipazione comunitaria a livello territoriale di tutti quei soggetti intermedi portatori di interessi o di istanze civili.
C’è bisogno di politica, perché un sistema che vive nel quotidiano reale ha comunque bisogno di sedi e meccanismi di rappresentanza, dove le singole parti possono contribuire ai processi decisionali ai vari livelli, senza i quali il paese sarebbe privo di vitalità dialettica e di dinamica sociale.
La crescita economica dell’Italia, per mezzo secolo, è stata alimentata da processi di sviluppo che hanno visto protagonisti l’iniziativa imprenditoriale, la vitalità delle realtà territoriali, la coesione sociale, la forza economica delle famiglie, la diffusa patrimonializzazione, la copertura dei bisogni sociali. Questi fattori sono ancora oggi essenziali per evitare lo sviluppo del conflitto sociale e superare la crisi. Ma occorrono scelte politiche coerenti, capaci di recuperare chi è stato trascinato ai margini della società e dare respiro a quanti oggi vivono in apnea, sospesi tra il sogno della ripartenza e l’incubo della povertà.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 20 agosto. Sfoglia l’indagine Tecnè in Pdf.

 

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