La resistibile ascesa del “non partito” | T-Mag | il magazine di Tecnè

La resistibile ascesa del “non partito”

di Carlo Buttaroni

Giovanni Sartori l’ha definito “liquidismo”. Rimuovere senza avere nulla da offrire, nessun riscatto, nessun annuncio. Solo risentimento. E’ il dissolvimento senza attesa che qualcosa di nuovo sostituirà ciò che è vecchio. Un passo oltre la società liquida di Bauman, una società, cioè, che cambia troppo velocemente per solidificarsi e strutturarsi. Un sentimento non nuovo nel nostro paese, ma che emerge con forza ogni qualvolta ci si trova di fronte a un’attesa tradita. Quando la società liquida approda al liquidismo, allora è inevitabile che trovino spazio gli imbonitori, i comici, gli intrattenitori. Perché la chiave del successo non è più nelle idee e nella capacità di progettare il futuro, ma soltanto nel sottrarre qualcosa a qualcuno, attraverso l’insulto, la delegittimazione, le insinuazioni, occupando quel territorio grigio al confine fra politica e farsa. Quando Bossi insultava il tricolore parlando di secessione e di fucili, dicendo di sparare ai clandestini, era quasi giustificato assimilando le sue idee solamente a un “linguaggio colorito”. E così, col tollerare una nuova Babele, ecco che i partiti sono diventati sempre più liquidi tra transumanze parlamentari, privilegi feudali, cappi, corna, insulti, escort e veline di varie natura e grado. Fino ad arrivare al grillismo. Senza neanche accorgersene. Un fenomeno che parla la lingua dell’antipolitica, ma che, per le domande che esprime, nel profondo ha bisogno di risposte politiche più di quanto s’immagini. Grillo è solo un interprete casuale sulla scena del nostro paese. Ce ne sono stati altri in realtà, come l’Uomo Qualunque di Giannini, negli anni del dopoguerra. Anche allora il qualunquismo, come il liquidismo oggi, anziché un insulto sembrava una virtù. E dal qualunquismo al liquidismo il passo è breve. Quasi fosse un istinto incastonato nel DNA del nostro paese, che rimane latente fino a quando circostanze particolari lo fanno riemergere, nutrendolo dei problemi irrisolti e degli stati d’animo più deleteri lisciati per ragioni elettorali. D’altronde il nostro è anche un Paese abituato a distribuire piccoli e grandi privilegi ad personam. E chi ne beneficia si nutre di ciò che ottiene fino a quando può ottenerlo. In epoca di “vacche grasse” ci si accontenta di ciò che c’è; al contrario, in epoca di “vacche magre” gli stessi rivendicando una fame insoddisfatta. Sentendosi sempre vittime, mai responsabili. Quando il sistema di cui si è fatto parte – e di cui direttamente o indirettamente si è goduto – crolla, solo allora si riscopre la forza della propria presunta innocenza, convinti che le responsabilità sono sempre da attribuire ad altri e che è ora di prendere nelle proprie mani il potere che, in altri tempi, si è sempre riconosciuto ai padroni omaggiati e fedelmente votati.
Se la politica è sofferente, scivolosa sugli scenari frammentati sui quali è chiamata a dare risposte, è anche perché, nelle molte crisi che ha attraversato il paese, è mancato un riformismo vero, di sinistra e di destra. Ancor più oggi, che la politica ha lasciato il campo alla tecnica e si aggira disorientata tra masse di elettori che esprimono una fluttuante geografia del consenso.
Per risolvere la sua crisi, quindi, la politica deve fare innanzitutto i conti con se stessa e ripensare gli oggetti della sua azione, perché in tutte le sue forme, ideali o teoretiche, fenomenologiche o empiriche, conserva sempre una confluenza con le scelte che compie, con la capacità di creare idee e di produrre azioni che governino la società. La crisi dei partiti è la crisi dell’agire politico capace di esprimere un senso e caricarsi di significati. Una crisi che si aggrava nel momento in cui la politica sembra poter decidere solo in subordine, prima al sistema economico, poi all’apparato tecnico, trovandosi in una situazione di adattamento passivo, condizionata da decisioni contingenti che non può indirizzare, ma solo garantire.
Se i conti non tornano, è perché si continua a confondere il funzionamento con il pensiero, la direzione con la velocità e la crisi della politica si nutre dell’impotenza di fronte alle scelte che dovrebbe compiere.
Sotto questo punto di vista il “grillismo” è solo una nuova tappa evolutiva del partito leggero e del partito personale che ha segnato la storia politica degli ultimi vent’anni: la persona che diventa partito. Un partito “non-partito”, con un leader che non è possibile mettere in discussione, organi d’informazione che dettano il nuovo verbo liquidatorio e liturgie che di democratico, aperto, inclusivo hanno ben poco. Il liquidismo-grillismo si afferma e si diffonde perché il problema è in quel sentimento che fa leva su un nichilismo lieve e che porta a preferire il nulla anziché il cambiamento, trasformando il risentimento in una protesta cieca, senza prospettive e direzioni, favorendo una forma di apatia, quando non di vera e propria ostilità, verso le stesse istituzioni democratiche. Se cresce, infatti, la critica nei confronti dei partiti, cresce anche l’antiparlamentarismo, il leaderismo esasperato, l’insofferenza verso il confronto e il dibattito.
D’altronde il grillismo non è la cura, ma soltanto il segnale d’allarme che invia il corpo di un sistema che vive gli affanni dell’inadeguatezza. Un virus che si diffonde e si moltiplica perché la democrazia, a differenza di qualsiasi altro regime politico, è inerte da se stessa e non può difendersi. Il carattere dei suoi anticorpi è nella famosa frase di Voltaire “non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu possa esprimerla”.
Se lo scopo dell’antipolitica è mettere in luce i difetti del sistema, denunciarli e tentare di correggerli, i fatti dimostrano che la “cattiva politica” cresce proprio intorno all’antipolitica, alimentandosi a vicenda, giustificandosi l’uno con l’altra, dando luogo a una struttura del potere rovesciata, che cresce tra i detriti di una società capovolta che ha perso i suoi riferimenti economici, sociali e, appunto, politici.
Per vincere la sfida con il “liquidismo” occorre ridare forza e ruolo alla politica dopo anni di degenerazione e delegittimazione che hanno progressivamente eroso la fiducia nei partiti e nelle istituzioni, minando le basi stesse della democrazia. Non ci sarebbe da stupirsi se le prossime elezioni politiche dovessero trasformarsi in un groviglio inestricabile e si dovesse ancora far ricorso a soluzioni tecniche. I presupposti ci sono nel momento in cui la metà degli elettori non è in grado (o non ha voglia) di scegliere un partito e un governo. Come se il cambiamento fosse impossibile. O, peggio, inutile.
Cosa fare allora? Occorre innanzitutto farla finita con la favola delle scelte tecniche neutrali, perché nemmeno la tecnica è neutra nel momento in cui agisce in una determinata direzione. E, soprattutto, occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte. Perché, alla fine, il deficit non riguarda la domanda, ma l’offerta di politica. Una perdita che si rileva attraverso il suo riassorbimento nel tessuto di una conflittualità eterogenea, accompagnata da nessun’ultima istanza che determini una scelta e un’assunzione di responsabilità. Un deficit che ha il suo punto di ricaduta nell’eclissi dei grandi interpreti e nell’indisponibilità di riferimenti culturali e valoriali che alimentino idee fondate su un bene comune e condiviso. C’è bisogno di politica perché anche i tanti piccoli rivoli sociali che stanno prendendo forma in risposta al liquidismo – e che hanno preso il posto dei grandi invasi – ne sentono la mancanza. Persino le pratiche che si moltiplicano aspirano a teorie in grado di spiegarle e darne un senso, così come le buone idee hanno bisogno di un’operatività pratica capace di renderle reali e concrete. In un momento in cui il sistema delle appartenenze stabili e radicate sembra non avere più molto da dire, ciò che si chiede alla politica è attenzione e sensibilità rispetto alla vita reale, insieme a un maggiore coinvolgimento nella progettazione e nella gestione delle politiche pubbliche. Tutto questo ha un nome: rappresentanza. E questo è l’obiettivo che il sistema politico deve porsi per frenare l’erosione della partecipazione e per trasformare un’azione, come quella del voto, in partecipazione piena e consapevole. E per farlo deve ritornare a pensare dal basso perché, per quanto paradossale possa sembrare, le grandi sfide trovano risposte soltanto in un sistema diffuso di rappresentanza e di governo della società. Le riforme istituzionali, comprese quelle elettorali, possono fare molto, ma non sono sufficienti se non s’innestano positivamente con una cultura capace di recuperare una dimensione partecipativa che in realtà non si è indebolita, ma ha soltanto cambiato forma e nome. Il “liquidismo” è nemico del futuro del nostro paese. E per contrastarlo non occorre un uomo forte ma la forza del pensiero, condiviso, responsabile, partecipe del futuro. Qualcosa che solo la politica può offrire.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 3 settembre. Sfoglia l’indagine Tecnè.

 

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