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Senza Europa non c’è politica

di Carlo Buttaroni

Crescita negativa, calo della produzione e dei consumi, aumento della disoccupazione, diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie: questo è lo scenario economico e sociale del paese. Per il presidente del Consiglio è il prezzo da pagare per uscire dalla crisi. In altre parole, affrontare una crisi con un’altra crisi, resa inoltre più acuta dalle politiche del governo perché, come ha precisato il premier “solo uno stolto può pensare di incidere su elementi strutturali che pesano da decenni senza provocare, almeno nel breve periodo, un rallentamento”. La ricetta di Monti, detta senza giri di parole, prevede che per stare meglio dopo, bisogna stare peggio prima. Il prezzo del risanamento, purtroppo però, non è uguale per tutti. E a pagare, nel nostro paese, sono soprattutto i giovani, le famiglie e i lavoratori a basso e medio reddito. Tanto che la forbice socioe-conomica dell’Italia, già particolarmente ampia rispetto ad altri paesi europei, si è ulteriormente allargata, ed è cresciuta la fascia di povertà, mentre la ricchezza si è concentrata al vertice della piramide sociale. Per molti economisti, la ricetta del rigore, che ispira le politiche economiche del governo Monti, è completamente sbagliata. D’altra parte di “sacrifici” il premier aveva parlato da subito. Un programma di risanamento che ha preso corpo nella riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, nei tagli ai servizi pubblici e alla sanità, nella riduzione dei redditi delle famiglie, nella crescita della pressione fiscale, nella riduzione degli investimenti pubblici. Interventi che hanno contribuito ad aggravare gli effetti della crisi e di cui il governo se ne attribuisce i meriti in un’ottica strategica. Nonostante i sacrifici, però, la fiducia nel governo Monti, dopo quasi un anno di politiche restrittive e di sforbiciate ai diritti e alle speranze della stragrande maggioranza degli italiani continua a mantenersi su livelli elevati. I partiti, al contrario, a pochi mesi dalle elezioni politiche, continuano a soffrire di un deficit di fiducia che ha il punto di ricaduta in una costante diminuzione dei consensi, mentre la quota d’incerti e potenziali astensionisti è progressivamente cresciuta fino a rappresentare quasi la metà del corpo elettorale. Disillusione, mancanza di credibilità e d’autorevolezza, inaffidabilità, sono i sentimenti prevalenti tra chi sceglie di non scegliere, ma anche tra chi fa propria la critica gridata al sistema politico che ha trovato voce nella grillo-ribellione.
La maggior parte dei cittadini non si culla più nelle ideologie che per decenni li hanno legati a doppio filo a questo o quel partito: ora sono i politici come persone che vengono valutate, per quello che trasmettono e, soprattutto, per quello che fanno. Per anni, in questo clima, i partiti hanno promesso molto, osservando ogni lieve movimento e sussulto dell’opinione pubblica, senza il coraggio di affermare e di difendere le idee controcorrente. Fino a quando i sogni sono diventati incubi e la promessa del nuovo miracolo italiano si è trasformato nell’amara scoperta di dover riavvolgere il nastro e di vivere una storia completamente diversa. La fiducia al governo Monti non deriva tanto dal merito delle scelte di politica economica, ma dall’aver messo sul piatto, per la prima volta dopo molti anni, un fatto anziché un sogno. Monti non ha mentito quando ha parlato di sacrifici e – piaccia o no – ha dato corpo alle sue ricette. Giuste o sbagliate che siano. Per questo risulta credibile. E la distanza con chi, prima di lui, ha promesso un nuovo miracolo italiano, non potrebbe essere più ampia.
La credibilità alimenta il consenso di Monti anche in campo internazionale. E questo gli italiani lo avvertono tra le righe di scelte che probabilmente non approvano. Se Monti dicesse, oggi, che l’Italia deve uscire dall’euro per risolvere la sua crisi, i mercati mondiali crollerebbero. Se la stessa affermazione venisse fatta da un leader di partito, la cosa non uscirebbe dai nostri confini, perché tutti la interpreterebbero come una boutade per far parlare di se e conquistare consensi.
I partiti non sono tutti uguali. Anzi, chi lo sostiene ha evidenti finalità propagandistiche e demagogiche. Tuttavia il declino della seconda Repubblica rende credibile questa generalizzazione. Del resto, oltre alle promesse tradite e ai sogni svaniti, l’altra parte di eredità della seconda Repubblica è rappresentata dal non essere riusciti a dare compiutamente alla politica nazionale una dimensione europea e internazionale. L’esempio forse fa torto ad alcuni nostri meriti: tuttavia, è possibile che non ci sia un nome che equivalga a ciò che in Europa corrisponde semplicemente a socialisti, popolari, liberali, conservatori e laburisti? Tutti hanno dovuto fare qualche distinzione nell’aderire ai gruppi politici del Parlamento europeo e tutti hanno avuto qualche distinguo da far valere.
Il respiro europeo della politica italiana appare talvolta corto. A destra certamente molto più che a sinistra. Ma questo scarto va colmato perché in Europa si giocheranno le partite vere e il rinnovamento dei partiti nazionali non può che passare per un cambiamento delle relazioni internazionali, per una piena assunzione della dimensione europea della vera politica. In diverse occasioni non aver avuto la capacità di pensare le scelte nella loro complessità ha significato chiamarsi fuori dai tavoli importanti. Altre volte invece è stata proprio la chiave europea a determinare il successo di alcune scelte politiche nazionali.
Gli italiani vivono la consapevolezza che le decisioni più importanti, dalle quali dipende il loro destino, sono emigrate dalle istituzioni nazionali, che un tempo i partiti presidiavano, verso un livello extranazionale, dove il nostro Paese deve giocarsi la nuova, decisiva partita. Ma questo aggrava oggi la crisi di consenso verso la politica: è certamente un fenomeno mondiale la progressiva emarginazione delle istituzioni democratiche nazionali delle decisioni che contano e che incidono sulla vita reale dei cittadini. Tuttavia, nella crisi acuta del nostro Paese, che ha conosciuto durante il decennio dei governi di centrodestra un declino-record rispetto all’intero Occidente, la paura del futuro alimenta e moltiplica il senso di sfiducia.
Mario Monti , a modo suo, ha dato risposta a questo tema, dopo che Berlusconi aveva azzerato la nostra credibilità all’estero e per pressioni esterne era stato costretto alle dimissioni: Monti ha l’autorevolezza e le competenze per giocare la partita in campo internazionale. Questa autorevolezza, insieme alle le sue competenze, gli sono riconosciute non solo fuori dai nostri confini ma anche dagli italiani. Anche perché il suo score segna i migliori risultati proprio in campo europeo e internazionale.
L’idea di un Monti-bis fa leva su questo. Sembra molto, tuttavia si può sostenere che sia troppo poco rispetto a ciò di cui ha veramente bisogno il Paese. Perché i problemi che sono sul tavolo non riguardano soltanto il riordino dei conti pubblici e il contenimento dei tassi d’interesse ma quale modello economico, sociale, politico si vuole dare al nostro Paese e quale indirizzo segnerà lo sviluppo. Questi temi non competono alla tecnica ma alla politica. E quindi ai partiti. Partiti diversi tra loro, dunque competitivi e alternativi. Ma per poter compiere queste scelte, per presentare i loro progetti agli elettori, devono recuperare credibilità e autorevolezza, uscendo dalla dimensione nazionale in cui si sono confinati e respirando a pieni polmoni quella dimensione europea oggi indispensabile per dare corpo a risposte che non siano solo un repertorio di illusioni.
Le opposte visioni della Merkel e di Hollande rispondono a diverse idee dell’Europa e dei rispettivi Paesi. La politica è il luogo delle scelte e della pensabilità. Solo così potremo evitare di “offrire” il pensiero del nostro futuro ad altri e trovarci veramente in prima fila nell’Europa che verrà.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 17 settembre. Sfoglia l’indagine Tecnè in Pdf.

 

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