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Un minuto di silenzio, e il pallone elabora-lutti

di Mario Piccirillo

Zitti. Tutti zitti. Ora, non domenica sera. Facciamo un minuto di silenzio per la morte della dignità, e facciamoci la croce una volta di più: viviamo in un posto che deroga al pallone l’elaborazione del lutto nazionale. Lino Romano, ucciso dalla camorra perché aveva l’auto sbagliata nel quartiere sbagliato, finisce così: nel ricordo dello stadio San Paolo, 60 secondi prima di Napoli-Chievo, tra “Borghetti chi beve”, una canna, e un po’ di cori contro la Juve. Muore una seconda volta nella formula più pelosa della retorica italiana: il silenzio che si trasforma in applauso, come ai funerali, con il rispetto ignorante di chi crede che il silenzio sia troppo poco quando invece è tutto. Muore ancora di più, perché affidiamo lo sdegno agli abitanti del San Paolo, che – con tutti i dovuti distinguo del caso – ospita un sacco di brava gente, ma anche il più puzzolente percolato della città, in una situazione perfettamente descritta da questo pezzo di Massimiliano Gallo.
Ormai il minuto di silenzio vale come metro dell’insolvenza morale: si gioca alle 15:01 quasi tutte le domeniche per i più svariati lutti: i militari caduti in azione, tipo una volta ogni tre mesi, l’atleta morto sul campo (salvo poi offenderne la memoria un annetto dopo, sempre allo stadio), il giornalista che stava simpatico a tutti, terremoti e calamità naturali in genere, nel ricordo dell’allenatore, del massaggiatore, del dirigente, della mamma del dirigente. E poi c’è il tifoso, ucciso da una città, da un Paese criminale, e omaggiato da chi di quel sistema fa parte. Ma attenzione: la qualifica di tifoso è gerarchicamente superiore a tutto, se sei un camorrista tifoso sei solo un tifoso, che va allo stadio ad omaggiare la vittima-tifoso, che è solo un tifoso, figurarsi una sua vittima. E’ un’occasione di grazia morale deflagrante, che innesca per un attimo il sentimento dell’umana pietà ma poi, un minuto dopo, lo spenge del tutto, lo digerisce come passato è passato eccetera eccetera. La digestione indigesta di un dramma assurdo. Che è finito in prima pagina di un quotidiano nazionale solo perché ce l’ha portato Roberto Saviano. Per caso, insomma. Ma abbandonare la morte di Lino Romano sul campo di un gioco, ne fa un gioco a sua volta: troppo facile lasciarlo andar via così. Non vale, non è giusto. Mi fa schifo.

Mario Piccirillo è giornalista dell’Agenzia Dire e ha un blog, qui.

 

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