Usa 2012. L’analisi (definitiva) del voto statunitense | T-Mag | il magazine di Tecnè

Usa 2012. L’analisi (definitiva) del voto statunitense

di Antonio Caputo

Passato qualche giorno dalla sbornia di numeri, che hanno caratterizzato la lunga notte tra il 6 ed il 7 novembre, e lasciate decantare quelle cifre (che ancora ballano essendo, tuttora, i risultati non definitivi, in quanto mancano i voti per posta), si può tracciare un’analisi del voto americano.
I numeri: a spoglio quasi ultimato, si conferma la vittoria di Barack Obama, presidente uscente, sullo sfidante Mitt Romney, con un vantaggio di due punti e mezzo (50.5 al presidente; 47.9 al miliardario repubblicano); una vittoria di misura, in voti popolari, più netta per delegati: ad Obama 332 grandi elettori con l’aggiudicazione della Florida confermata ad alcuni giorni dall’election day, a Romney 206.
E così, dopo aver stabilito tante “prime volte” (un presidente di colore, un democratico dell’Illinois vincente, un vicecattolico vincente), Obama ne stabilisce altre: un democratico vincente il 6 novembre ed una rielezione con meno voti della prima vittoria. Fino ad ora un presidente uscente, o si confermava incrementando, rispetto alla prima elezione, il suo vantaggio (o quanto meno aumentando i propri voti: Woodrow Wilson, nel 1916, si confermò con uno scarto, in voti e in delegati, inferiore al 1912, ma quattro anni prima aveva vinto sul velluto, perché i repubblicani presentarono due candidati; in ogni caso, l’allora presidente salì dal 42 al 49% pur perdendo vari Stati tra un’elezione e l’altra; Franklin Delano Roosevelt, dopo aver rispettato tale consuetudine alla sua prima riconferma -1936-, scese in voti e in delegati nella terza e ancor più nella quarta rielezione, ma, appunto, si trattava di conferme successive, oggi impossibili, limitando la Costituzione a due i mandati presidenziali), o veniva bocciato. Vittoria meno ampia dicevamo: nel 2008 Obama ottenne il 52.9% e 365 voti elettorali (contro il 45.6% e i 173 delegati del repubblicano McCain); si è verificato uno spostamento a destra di un paio di punti percentuali e di due Stati (Indiana e North Carolina), ed una variazione, in direzione repubblicana, dei distacchi in quasi tutti gli altri.
L’affluenza alle urne è scesa, cosa che ha influito sullo spostamento verso destra: in pratica Romney, rispetto a McCain, non ha guadagnato voti; ha recuperato in percentuale, approfittando della perdita di Obama, sul quale è in pratica ricaduto tutto il peso della maggior astensione.
Disaggregando il risultato per gruppi sociali, ad Obama va il voto delle minoranze, con una prevalenza schiacciante tra i neri (93 a 6), e nettissima anche tra ispanici (70 a 29) ed asiatici (72 a 26), etnie, queste ultime due, tra le quali il presidente va meglio di quattro anni fa. I bianchi, invece votano repubblicano in proporzioni che non si vedevano da tempo: Romney stacca Obama di 20 punti percentuali, un dato che ricorda quello di Bush padre contro Dukakis. Con Obama ceti popolari, operai, donne e giovani; con Romney, uomini, ceti abbienti ed anziani.
Dal punto di vista religioso, Obama si è aggiudicato l’elettorato secolarizzato, mentre quello più religioso è andato a Romney (mormoni a valanga, e non poteva essere altrimenti, ma anche protestanti, col 56%, che sale di molto tra i praticanti). Cattolici spaccati (52 a 48 per Obama, un dato più che ribaltato tra i praticanti domenicali); Ebrei a sinistra ma assai meno che in passato: Obama in quattro anni scende dal 78 al 69% pagando una politica mediorientale assai meno filo-israeliana rispetto alla tradizione Usa.
Geograficamente, Obama fa suo il voto delle metropoli, Romney quello dei sobborghi e delle aree rurali. Suddividendo il Paese nelle quattro tradizionali macroaree, il Nordest resta l’area più a sinistra, rimanendo (Pennsylvania e New Hampshire a parte), sulle percentuali del 2008, con il presidente in vantaggio di quasi 20 punti sullo sfidante, che, pure, proprio dal Nordest proviene. Il Midwest si sposta secondo la media nazionale: i 9 punti di vantaggio di Obama del 2008 scendono a 2; distanze accorciate anche nel West, dove dal +14, Obama passa a +9, con Romney che rimonta soprattutto nelle Montagne Rocciose, in Stati nei quali la comunità mormonica è assai numerosa. Il Sud infine: McCain vinse quattro anni fa di 7 punti e mezzo; ora Romney prevale di oltre 10.
Al di là di perdite o guadagni percentuali, perché Obama ha rivinto? Diverse le ragioni, ed in ciò si vede, per il presidente, il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto: il mezzo pieno è la vittoria, nonostante l’economia (comunque in ripresa nell’ultimo anno), con un potenziale recupero, in caso di ulteriori miglioramenti, di altri elettori oggi rimasti a casa; il mezzo vuoto è la perdita di voti, nonostante una mobilitazione ben superiore agli avversari (indispensabile a difendere le posizioni e ad imporsi, sia pur in maniera modesta, negli Stati decisivi), e nonostante gli errori, numerosi, dei repubblicani. Una mano determinante per convincere gli indecisi, l’ha data poi l’uragano Sandy, o meglio, la risposta di Obama, prontissimo a portare i primi soccorsi nelle zone devastate. Repubblicani sfortunati? Senz’altro, ma Bush iniziò il suo declino proprio per la sua risposta deficitaria ad un altro uragano (Kathryna); questo, gli elettori non l’hanno dimenticato. Il discorso è ovviamente speculare per il partito di Romney; ma cosa non è andato, sul versante conservatore? Tante cose, come abbiamo scritto più volte su queste colonne, indovinando un pronostico su cui nessun altro mezzo di informazione (almeno in Italia) si è sbilanciato.
Intanto “l’anziano” Romney, a differenza di Obama, non è carismatico; poi non è riuscito a superare tutte le divisioni interne al partito emerse durante le primarie (per dirne una, Gary Johnson, ex governatore repubblicano del New Mexico, dopo aver inutilmente tentato la corsa delle primarie, si è presentato da solo, raccogliendo un 1% nazionale, non decisivo probabilmente in nessuno Stato, ma che in Florida e Ohio avrebbe quasi azzerato le distanze da Obama); ha sbagliato nella scelta del vice, Ryan (il quale non è riuscito a portare in dote neppure il suo Wisconsin), assecondando l’estremismo di quel Tea Party (uscito senz’altro sconfitto da questa elezione) che in questi anni ha condizionato pesantemente (spesso danneggiando) i repubblicani. Ancora, a Romney non sono state perdonate la continua oscillazione delle sue posizioni e il suo atteggiamento da miliardario bostoniano, distante dai problemi del popolo: la sua vicinanza a Wall Street ed il fatto di pagare solo il 14% di tasse (legalmente, sia chiaro), non è stato accettato da un ceto medio alle prese con la crisi, che ha visto nella gaffe del candidato repubblicano sui poveri, non un fulmine a ciel sereno, ma il vero modo di pensare di un ricco, che ne indica l’incapacità di misurarsi con la situazione di chi fatica ad arrivare a fine mese. Emerge, in ciò, l’analogia, di cui avevamo parlato nei mesi scorsi, col 2004: anche allora vinse di misura un presidente uscente (Bush), con una popolarità zoppicante, contro un miliardario bostoniano (Kerry), “anziano” e tutt’altro che carismatico, oscillante su vari temi, e ritenuto non credibile e distante dal popolo. Due debolezze a confronto, oggi come otto anni fa, dinanzi alle quali gli elettori hanno in entrambi i casi preferito non cambiare.
Detto ciò, i problemi dei repubblicani non si risolvono certo nell’inadeguatezza dell’ex governatore del Massachusetts. Oltre alla distanza dai ceti medi, il partito di Romney ha pagato carissimo l’atteggiamento di numerosi suoi esponenti verso due categorie di elettori: le donne e gli ispanici.
L’elettorato femminile ha premiato Obama al 55%: quanto avranno influito le dichiarazioni di due aspiranti senatori (entrambi battuti, in Stati che hanno votato massicciamente Romney), sul rapporto stupro-aborto? Dire che una donna stuprata non può restare incinta perché il bambino non si forma se essa non sia stata consenziente, o che se, a seguito di uno stupro, rimanesse incinta, ciò sarebbe “volontà di Dio”, indigna anche chi è credente e contrario all’aborto, figuriamoci le numerose donne vittime di violenza. Non è bastato, a Romney, schierare la moglie Ann per recuperare: l’elettorato femminile ha visto la (bella) mancata First Lady, algida e distante, a differenza di Michelle Obama, molto più “donna della porta accanto”.
Verso i latinos, Romney ha pagato l’ostracismo di molti compagni di partito, che hanno ostacolato con ogni mezzo la proposta di Obama di regolarizzazione degli immigrati che lavorano. Una proposta peraltro molto simile a quella di Bush e McCain, anch’essa a suo tempo impallinata dagli stessi repubblicani. Non solo l’immigrazione, però: nel voto ispanico hanno pesato anche il no repubblicano alla riforma sanitaria, e la posizione sulle tasse (sgravi fiscali per i più abbienti, tagliando quel welfare, i cui maggiori beneficiari sono i più poveri, latinos in testa).
D’altro canto Obama ha vinto per colpe altrui, ma anche per meriti propri, accarezzando l’elettorato negli Stati incerti (vinti tutti, North Carolina esclusa): negli industriali Ohio e Michigan, decisivo il salvataggio dell’industria dell’auto, con i repubblicani che preferivano farla fallire; nell’agricolo Iowa, i sussidi per l’agricoltura; nell’anziana Florida, la riforma sanitaria; nella militare Virginia, le leggi per i veterani; la macchina del partito democratico ha inoltre funzionato alla perfezione, mobilitandosi per riportare alle urne anche molti delusi.
Senza tutti gli errori commessi, avrebbe vinto Romney? Non è detto, ma quand’anche fosse stato, anch’egli lo avrebbe fatto di misura, con una partita che sarebbe stata in ogni caso incerta, come incerte sono state tre (questa compresa) delle ultime quattro elezioni presidenziali (dal 2000 ad oggi, escluso il 2008, quando troppo forte era la crisi economica, e troppo alta la voglia di cambiare degli americani dopo gli otto anni di Bush): l’America (come dimostra anche il voto per il Congresso: il Senato conferma la maggioranza democratica; la Camera si conferma repubblicana) è un Paese spaccato, in cui pochi Stati (massimo una dozzina) oscillano attorno alla parità, con tutti gli altri sempre più polarizzati in un senso o nell’altro e dove di fatto neppure si fa campagna elettorale.

 

1 Commento per “Usa 2012. L’analisi (definitiva) del voto statunitense”

  1. V I T T O R I A

    Correre verso l’infinito
    e farlo proprio
    già durante il percorso
    insieme ad altri
    ed arrivare primi
    completamente trasformati.

    Correre verso l’ignoto
    e dargli un nome,
    identificativo del progetto,
    sognato da una vita
    e realizzato pienamente
    nonostante le forti difficoltà.

    Correre verso il futuro
    e credervi fermamente
    trasformandolo in affascinante
    presente non solo sognato,
    ma vissuto sulle strade
    dell’attraversato mondo.

    Correre verso la luce
    irradiando i giorni
    tra utopiche speranze
    di lotte superate,
    con la società cambiata
    nell’abbraccio del progresso.

    Antonio Lonardo

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