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Che senso ha, oggi, il Festival internazionale del film di Roma?

di Giampiero Francesca

Affrontare le molte questioni aperte da questa settima edizione del Festival del film di Roma non è cosa facile. La particolarità della location, del budget a disposizione, del momento storico, ma anche le polemiche che ne hanno accompagnato la vita, sin dalla sua nascita, rendono infatti molto complesso affrontare con la giusta serenità le problematiche reali della manifestazione. Proviamo allora ad andare per gradi, partendo dagli spunti proposti proprio dalla kermesse appena conclusa.
Il programma e il palmarès.
Che il programma di questa settima edizione del festival non fosse di particolare caratura lo si era già ampiamente capito sin dal suo annuncio ufficiale. Sia nelle sezioni principali (Concorso e Fuori concorso) che in quelle parallele (Cinema XXI e Prospettive Italia) scarseggiavano infatti autori e titoli in grado di garantire, almeno sulla carta, lustro alla manifestazione. Nessuno però, nemmeno i più polemici detrattori di Marco Müller, poteva immaginare una tale penuria di idee, creatività, arte; di cinema. Non è un giudizio tranchant, ma un’amara constatazione. Se si escludono infatti rare eccezioni (il sempre divertente Walter Hill e il suo Bullet to the head, l’interessante A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III di Roman Coppola e il seducente Goltzius and the Pelican Company di Peter Greenaway) la kermesse romana è stata caratterizzata da opere deludenti, spesso qualitativamente insufficienti, con storie povere e messe in scena sciatte. Un livello tanto mediocre da far sembrare apprezzabili film appena dignitosi come quelli di Johnnie To (Drug War), Takashi Miike (Lessons of evil) o Valerie Donzelli (Main dans la main). In un panorama così desolante il compito della giuria, presieduta da Jeff Nichols, non doveva essere sicuramente dei più agevoli. Questo però non può render conto di un palmarès che appare, almeno nei suoi riconoscimenti principali, incomprensibile ed ingiustificabile. Incomprensibile è infatti il Marc’aurelio d’oro per il miglior film al confuso Marfa Girl di Larry Clark, ammasso in salsa indie radical chic di luoghi comuni americani, con atmosfere da porno-soft e un ritmo da letargia. Ingiustificabili sono invece i premi a E la chiamano estate di Paolo Franchi (Premio alla regia e miglior attrice a Isabella Ferrari), pellicola in grado di mettere d’accordo pubblico e critica in un unico, sonoro, fischio. Presuntuoso quanto approssimativo nella forma, gravato da una fotografia piatta, danneggiato da una sceneggiatura a tratti imbarazzante, quello che avrebbe dovuto esser un dramma esistenziale è spesso scivolato, almeno sentendo le reazioni della sala, in una commedia involontaria, una farsa. Un palmarès che dunque sembra pienamente rappresentare l’immagine di un festival debole, pieno di dubbi e problemi, che il demiurgo Marco Müller non è riuscito evidentemente a risolvere.

Il festival e il suo pubblico.
Problemi fra cui spicca, sicuramente, l’assenza di pubblico, la disaffezione che la città di Roma dimostra, a dir la verità ormai da anni, verso questa manifestazione. Se infatti la scarsa qualità di un programma può essere imputabile a molte variabili (l’alibi della fretta con cui Müller, insediatosi in ritardo, l’ha dovuto comporre; la scarsità di pellicole disponibili; problemi di carattere diplomatico con distribuzioni e produzioni internazionali) diverso è il discorso per il lento ma constante allontanamento degli spettatori dal festival. Da cosa è dato questo calo di partecipazione? Perché la città di Roma, che tanto aveva amato la creatura di Walter Veltroni, la sta ora abbandonando?
Il processo di trasformazione che ha subito quella che un tempo era denominata, non a caso, Festa del cinema di Roma è sicuramente alla base di questo distacco. A ben guardare infatti l’idea originale nulla aveva a che fare con il carattere di un festival tradizionale. L’obiettivo, più o meno dichiarato, era quello di creare, nel cuore di Roma, un grande red carpet che portasse le stelle (prevalentemente d’oltreoceano) vicino alla gente.
Proprio grazie alla partecipazione dei grandi divi americani gli spettatori si accalcavano così, nelle prime edizioni, lungo la passerella dell’Auditorium, alla ricerca di una foto o di un autografo. Uno spirito distante dalla cineflia di Venezia o Torino, ma molto più autenticamente pop(olare). Già con la precedente gestione Rondi/Detassis aveva però avuto avvio un fenomeno di cambiamento dei connotati originari. Un processo che, i più fiduciosi, speravano trovasse un freno nel sapiente opportunismo dimostrato, in tutta la sua carriera, proprio da Marco Müller. Cercare di riproporre, a pochi mesi di distanza, una festival nello stesso stile di Venezia e, in parte, di Torino significava infatti non solo doversi contendere le stesse, poche pellicole ma anche rischiare una frattura ancor più netta con un pubblico già disaffezionato. Le prime scelte della nuova gestione avevano però subito raffreddato gli entusiasmi. Pretendere la partecipazione, in concorso, di sole anteprime mondiali, ricostruire una giuria interamente composta da addetti ai lavori (sostituendo definitivamente quella popolare) erano certamente i segnali della definitiva trasformazione della Festa in Festival. Una trasformazione di fatto annunciata da Müller nella conferenza stampa di presentazione. Una trasformazione con la quale, lo stesso direttore, ora dovrà fare i conti. Con le sale sempre più vuote infatti, la domanda, la più banale, nasce spontanea. Che senso ha, oggi, il Festival internazionale del film di Roma?

Un budget diverso per un festival diverso.
Porsi un quesito del genere è sicuramente banale, così come qualunquista sarebbe sottolineare l’imponente budget (oltre i dodici milioni di euro) a disposizione per questa manifestazione. Per evitare di scivolare verso considerazioni semplicistiche bisogna perciò premettere che quello che si vuol dare non è un giudizio di merito sulla sfortunata selezione di quest’anno, né una grossolana critica di come questa manifestazione venga organizzata. Semmai l’obiettivo potrebbe essere quello di evidenziare alcune criticità e avanzare qualche proposta. E’ impensabile, ad esempio, che un festival come quello di Roma (fosse solo anche per la location e la disponibilità economica) non possa avere alcun “potere contrattuale” nei confronti delle grandi produzioni e distribuzioni internazionali. Da questo punto gioverebbe sicuramente smussare la granitica decisone della direzione di presentare al festival solo anteprime mondiali. Se infatti finanche il festival di Cannes ammette film già distribuiti nei loro paesi d’origine, perché non dovrebbe farlo quello di Roma? Basterebbe infatti poco per ridare al pubblico la gioia di partecipare ad una grande manifestazione. Ma se al contrario si vuole procedere verso un la creazione di vero festival, dai connotati duri e puri, fermo nella sua cinefilia, nella ricerca, nella volontà di valorizzare opere prime e seconde, perché richiedere un budget così alto? Questa domanda non vuol sfociare nella bagarre tipica di quella grossolana critica del potere che tanto anima la nostra dialettica contemporanea, ma ancora una volta proporre delle ipotesi concrete. Il Festival del film di Roma si regge, infatti, anche e soprattutto grazie ad un lavoro di found raising, che porta, nelle casse dell’organizzazione finanziamenti importanti da sponsor privati. Perché dunque non affidarsi solo a quelli? Perché non liberare risorse pubbliche, magari da ridistribuire sempre nell’ambito della cultura? Perché non pensare ad un budget diverso, per un festival diverso?

 

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