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Un miraggio il lavoro non standard

di Carlo Buttaroni

La condizione dei nostri giovani può essere riassunta con una parola: precarietà. Una precarietà che riguarda il lavoro, la formazione, le relazioni affettive, la vita stessa. Una generazione in deficit di futuro e di opportunità, costretta a farsi carico di responsabilità non sue e a pagare il prezzo di una crisi che ha solo subito.
Una minoranza che è maggioranza quando si tratta di fare la contabilità degli effetti della crisi, quando si fanno i conti sulla disoccupazione, sull’instabilità, sulla dispersione, sulla migrazione dei talenti. Altro che schizzinosi o bamboccioni: anche i vecchi lavori a tempo determinato sono ormai diventati un miraggio irraggiungibile. Giovani “usati” senza più vincoli e tutele in un Paese incapace di metterli nelle condizioni di contribuire alla crescita valorizzandone capacità e competenze. Giovani da licenziare alla prima difficoltà.
I numeri sono eloquenti: il 60 per cento dei precari è nato dopo il 1974. Quattro giovani su dieci vivono con i genitori e, di questi, la metà resta in famiglia perché non può mantenersi, perché vivono un equilibrio economico che può reggere solo grazie al sostegno familiare. Quella fra i 15 e i 34 anni è la prima generazione che ha meno aspettative dei propri padri, la prima ad avere meno chance pur avendo studiato di più e investito ingenti risorse nella formazione. Laurea, master, corsi di specializzazione non bastano. Trovare un lavoro è difficile. Trovarlo adeguato alla propria formazione è una chimera. E anche quando un giovane lavora, deve rassegnarsi a un reddito inferiore rispetto al passato, uscire dai colloqui con la solita frase “lei è troppo qualificato”. Idee, voglia di fare, non bastano. Le probabilità di migliorare la propria condizione sociale rispetto a quella dei genitori è praticamente nulla.
La curva del posizionamento generazionale è, infatti, cresciuta fino agli anni ’50, riducendosi progressivamente con le generazioni successive e invertendo la direzione negli ultimi dieci anni. Anche la mobilità sociale è ferma. Le probabilità per i giovani provenienti da un ceto medio-basso di fare una scalata sociale sono sempre meno. Solo l’8,5% di chi ha un padre operaio riesce ad accedere a professioni qualificate, a diventare dirigente, imprenditore o libero professionista. E il rischio, proseguendo di questo passo, è di ritrovare il Paese imbrigliato nelle sue afasie e in incomprensibili grovigli.
I giovani vivono un passato pieno di sogni e un futuro che appare in salita. Eppure ci si accanisce su di loro, riducendoli sotto la linea del vuoto, imputandogli la disaffezione a tutto e l’abbandono di ogni desiderio di migliorare la propria condizione. Come se potessero realmente farlo. E come se fosse loro la responsabilità del presente che gli è stato consegnato.
Quando in realtà il problema non è il loro vuoto, ma il deserto creato dagli adulti. Non è il non credere a qualcosa o qualcuno, ma l’assistere alla distruzione sistematica di tutto ciò su cui poter contare. La fatica di vivere delle giovani generazioni, non viene neanche percepita nella sua reale gravità. Appare come un tenue nichilismo che avvolge la vita, sfumato dai contorni di un aspetto curato e dalla ricerca affannata dell’esteriorità. Ma è un malessere che racchiude la stanchezza di una generazione che si trova ad affrontare cambiamenti destabilizzanti. Una generazione alla quale non soltanto è stata preclusa la meta della felicità, ma è stata sottratta anche la bussola per trovare la strada della serenità. Senza un ruolo sociale, senza un’identità, senza un’autonomia che permetta di andare incontro alla vita. Prende forma una passività che frena, o nei casi peggiori, blocca la capacità di affrontare il futuro come un territorio da conquistare. La notte diventa lunga, con pensieri che si alternano confusi, in un clima d’incertezza e amarezza. E la conseguenza è sentirsi smarriti dentro circostanze che accadono ineluttabilmente, generando una stanchezza fisica e psicologica, una paralisi d’idee e sentimenti, un riavvolgersi di progetti e sogni. La crisi rischia di immobilizzare i giovani, di non dargli occasioni di crescere e diventare adulti.
Come ascoltare, allora, una generazione senza voce? Le biografie giovanili non corrispondono per nulla agli stereotipi della spensieratezza. Sono presenti, invece, quelle tonalità emotive tipiche del dissolvimento degli orizzonti, ben evidenti nel timore diffuso di perdere il controllo delle proprie vite e del proprio futuro. Perché quando il cammino non è più segnato da significati, opportunità, obiettivi, il terreno svanisce sotto i propri passi e ne deriva un sentimento di vertigine, caduta, perdita di ogni riferimento.
Nella babele delle emozioni di oggi una risposta può essere l’ascolto, una predisposizione ampiamente in disuso proprio nella società della comunicazione di massa. Ma ascoltare è importante perché chiama in causa e mette in gioco, permette di recuperare consapevolezza, offre occasioni per apprendere, riconoscere, legittimare, condividere. Mentre nella fretta che incalza la vita si finisce nel non avere mai tempo per dare significato alle speranze, elaborare le esperienze, assaporare la ricchezza della vita che si svolge. Una società nuova può nascere solo dall’ascolto. E da un’etica della responsabilità che chiama in causa tutti. Soprattutto oggi che i giovani cercano di riappropriarsi del loro futuro in un percorso di riscoperta e ricostruzione. Non ascoltarne le pulsioni, le speranze, i desideri, significa condannare il Paese ad avvitarsi su se stesso e precludere ogni opportunità che sia incubatrice di futuro.
L’entusiasmo e l’irruenza dei giovani nella storia hanno sempre avuto il compito di rompere l’immobilismo e l’inerzia, solo che adesso questa spinta viene indirizzata spesso nel modo sbagliato. Gli episodi di violenza che hanno segnato alcune manifestazioni di piazza devono preoccupare e far riflettere. La violenza è una trappola, dove i giovani rischiano di far precipitare le loro vite. Un virus che si nutre del disagio e del disorientamento. Un rischio rispetto al quale i giovani stessi devono imparare a sviluppare gli anticorpi. I contenuti delle proteste di piazza, anche se densi di significato, rischiano, infatti, di passare inosservati se l’aggressività fa da filo conduttore. In un’epoca non più recente l’Italia ha conosciuto il significato di una violenza che non ha prodotto solo lutti e drammi ma anche l’arretramento delle libertà, l’annichilimento delle opportunità di essere artefici di un cambiamento. Sono stati gli anni più bui della nostra Repubblica. Non possiamo correre il rischio di tornare indietro. Ma non possiamo neanche permettere che la paura del passato ci faccia chiudere a chiave le porte che aprono sul futuro. Il migliore antidoto contro la diffusione della violenza non è vietare le piazze o reprimerle, ma riempirle di giovani dal volto scoperto, colorati e armati delle armi più efficaci: il desiderio di vita e di futuro.
Per questo occorre imparare ad ascoltarle quelle piazze, a dialogare con i giovani che si affacciano alla vita. Glielo dobbiamo anche come risarcimento morale. Per esserci appropriati di ciò che era loro, per avergli invaso il futuro, consumando in modo indiscriminato energia, suolo, risorse naturali, condizionandone i sentimenti, le aspirazioni, le pulsioni, pur di trasformarli in precoci consumatori dei nostri palinsesti. Lungo i loro anni a venire troveranno più detriti di quanti ne abbiano lasciati tutte le civiltà del passato.
L’Italia deve puntare sui giovani perché solo da loro può venire la cifra di un nuovo modo di pensare la società. E nessun cambiamento è pensabile e possibile senza il loro contributo. Un’apertura che richiede coraggio. E il Paese, mai come oggi, ha bisogno di politiche coraggiose, misurabili sulla sostenibilità generazionale. Perché le radici del futuro stanno nel presente e le fondamenta di una società che vuole tornare a orientarsi verso il futuro non possono che partire da qui.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 26 novembre. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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