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Il “carpe diem” dei fotografi

di Matteo Buttaroni

Intorno alle 12,30 di lunedì in una fermata della metro a pochi passi dal Times Square, a New York, è morto, schiacciato dai vagoni a seguito di una spinta, il un uomo di 58 anni di nome Ki-Suck Han.
“L’assassino”, secondo alcune testimonianze avrebbe avvicinato la vittima e dopo un piccolo battibecco lo avrebbe poi spinto sui binari, verso la morte.
Ora, se già questa è una notizia che fa “rumore”, il vero “caso” è come la notizia sia stata diffusa, o meglio, sfruttata dal New York Post.
La testata statunitense, già nota per i toni e per i titoli molto spesso inadeguati al contesto, questa volta sembra proprio avere esagerato scatenando infatti le critiche delle altre testate, dei giornalisti e anche di alcuni fotografi. Sì perché al centro delle critiche c’è proprio una foto, scattata dal fotografo freelance Umar Abbasi. Uno scatto che ritrae il malcapitato, Han, che tenta di risalire la banchina mentre il treno si avvicina per portarselo via definitivamente. Un attimo colto alla perfezione, sfruttando quella velocità che ogni fotografo dovrebbe e sogna di avere, quella velocità che ti permette di sfruttare l’occasione, ma forse in questo caso è un po’ troppo. L’immagine è cruda, è fredda e per alcuni tratti potrebbe addirittura rievocare le foto di guerra, i cui protagonisti si capiva benissimo che non le avrebbero mai potute commentare successivamente.
A metterci il carico, il titolo dato dal New York Post: “Spinto nei binari della metro, quest’uomo sta per morire. Spacciato”. Troppo? Per l’opinione pubblica sì, perché Abbasi invece di tentare di salvare l’uomo ha preferito garantirsi l’esclusività che spetta al testimone di una strage. Le critiche naturalmente arrivano anche alla testata giornalistica che in modo veramente irrispettoso ha usato quell’immagine e quel titolo per colorare la sua prima pagina senza pensare alle conseguenze che la visione della stessa avrebbe provocato. L’uomo, del Queens, aveva infatti una moglie, una figlia e chissà quanti altri parenti e amici che per forza di cose potrebbero aver visto quell’immagine così cruda e così priva di tatto.
Il fotografo dal canto suo si è difeso affermando che la foto è riuscita casualmente mentre correva segnalando al macchinista di fermarsi utilizzando il flash. “Ho iniziato a correre e correre, sperando che il conducente potesse vedere il mio flash. In quel momento volevo solo avvisare l’autista del treno e cercare di salvare la vita dell’uomo”, ha commentato al New York Post. Ovviamente le parole sono state messe in dubbio da gran parte dell’opinione pubblica, perché basta guardare la foto per rendersi conto la è troppo ben fatta per essere un caso. Ma potrebbe anche essere così, d’altronde se è stato talmente “fortunato” da cogliere quel momento, probabilmente la fortuna lo ha assistito anche nella riuscita dello scatto.
Se la spiegazione di Abbasi non fosse vera e avesse voluto semplicemente cogliere quel fatidico attimo, cosa lo ha spinto a premere il pulsante della sua macchina fotografica piuttosto che precipitarsi a salvare Han? Si tratta quindi di cinismo? E se sì, è un cinismo mosso dalla moda che coinvolge professionisti e amatori secondo cui qualsiasi istantanea – cruda o dolce – meriti una condivisione online o semplicemente dalla passione per il proprio lavoro?
Mettiamo che sia realmente così, come ha raccontato il fotografo, che l’uomo fosse veramente spacciato, e che quindi la foto di Han morente potesse essere l’unico ultimo appiglio a quella vita che stava per essere portata via: era necessario renderla pubblica? Poteva anche rimanere una sfida superata, quella del fatidico carpe diem. Quello del fotografo non è cinismo, ma una fatale opportunità. Non capita tutti i giorni di fermare in un’immagine il momento della morte di una persona. Non è come la nascita, quando si può chiedere al dottore di aspettare per il taglio del cordone. La morte il più delle volte è immediata e imprevedibile. Dunque difficile da fotografare (a patto che non ci sia davvero alternativa).

 

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