Il sì dell’Onu alla Palestina: gli scenari
Il riconoscimento dell’Autorità palestinese come “Stato osservatore” all’Assemblea generale delle Nazioni Unite appare destinato a inserire nuovi elementi di complessità nel già intricato sistema dei suoi rapporti con lo Stato di Israele, e ad avere ricadute significative negli scenari gravitanti intorno alla tormentata regione mediorientale. Passata l’euforia sollevata da un annuncio atteso da tempo e caricato (nel bene e nel male) di pesanti aspettative, sembra comunque difficile immaginare che il voto del 29 novembre avvicini in modo significativo la “soluzione dei due Stati” cui pure le parti (fermi restando i rispettivi distinguo) affermano di volere puntare. Al contrario, il “fatto compiuto” prodotto dall’Assemblea generale e la diffusa soddisfazione espressa dalla comunità internazionale rischiano non solo di esacerbare le tensioni fra Israele e Palestina (ancora alte dopo la conclusione dell’operazione “Pilastro di difesa”) ma, più in generale, di allontanare ulteriormente le posizioni dei soggetti interessati – per varie ragioni – a una composizione stabile e definitiva del contenzioso. Nonostante la natura apparentemente “risolutiva” del riconoscimento, il voto espresso in suo favore è riuscito soprattutto a sparigliare nuovamente le carte di un gioco che, a ogni mano, si presenta più complesso. Semplificando al massimo i termini del problema, la posizione presa dall’Assemblea generale ha ricadute ad almeno tre livelli.
(1) Per quanto riguarda le relazioni bilaterali fra i vertici dell’Autorità e lo Stato di Israele, il riconoscimento non sembra destinato a modificare in modo sostanziale gli equilibri sul campo. Esso darà comunque maggiore forza “morale” alle richieste di quanti – da entrambe le parti – sostengono l’opportunità/desiderabilità della costituzione di uno Stato territoriale palestinese e, di converso, finirà per accentuare la riprovazione della comunità internazionale verso quelle che sono presentate/percepite come le politiche “repressive” portate avanti da Gerusalemme nei “territori occupati” e/o verso quelli dell’Autorità. L’operare di queste dinamiche è già evidente nell’annuncio – da parte del governo israeliano – di avere autorizzato la realizzazione di nuovi insediamenti abitativi a Gerusalemme est e in Cisgiordania subito dopo il voto in Assemblea generale, e nelle reazioni di pressoché unanime condanna che hanno fatto seguito a questa decisione. Il peso esercitato dei deputati di Yisarel Baitanu (il cui controverso leader, Avigdor Liberman, ricopre dal 2009 l’incarico di ministro degli Esteri) sul governo Netanyahu concorre a irrigidire ulteriormente questa situazione, mentre la frammentazione del sistema politico israeliano e la situazione magmatica che caratterizza le diverse compagini lasciano prevedere un esito non risolutivo delle consultazioni politiche programmate per il prossimo gennaio.
(2) In ambito internazionale, l’irrigidimento della posizione di Gerusalemme rischia di avere riflessi negativi sull’insieme delle relazioni fra lo Stato di Israele e gli Stati Uniti in un momento di particolare vulnerabilità della loro amministrazione. La reazione negativa di Washington al voto dell’Assemblea generale era, in larga misura, attesa. Tuttavia, l’esito del voto ha esposto il presidente Obama (che negli anni del primo mandato si è dimostrato un interlocutore piuttosto critico del governo israeliano, pur nel rispetto di un legame “di fondo” che rimane solido) sotto un fuoco incrociato di critiche, soprattutto per la sua incapacità di portare i Paesi europei sulle proprie posizioni. Dopo la rielezione, Obama sembra inoltre attraversare una fase di sostanziale debolezza, in parte aggravata da un insediamento non ancora avvenuto, da un Congresso in larga misura ostile e dalle incertezze che continuano a circondare la composizione della futura amministrazione. Al di là delle convergenze formali, differenze di sensibilità e di linea politica sembrano esistere fra la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato, mentre le scelte di Gerusalemme rischiano di mettere il presidente in imbarazzo in un momento in cui le aperture di credito verso l’Egitto di Mohamed Morsi (peraltro messe ampiamente in discussione dagli sviluppi della situazione interna egiziana) sembrano prefigurare la possibilità di un “restart” anche nei confronti del mondo arabo.
(3) Un terzo aspetto da tenere in considerazione riguarda gli equilibri interni al mondo politico palestinese; anche in virtù del suo ruolo istituzionale, Abu Mazen ha presentato il riconoscimento da parte della Nazioni Unite come un successo prima di tutto di al-Fatah e della politica da questa portata avanti dalla stipula degli accordi di Oslo in poi. Questa strategia (che trova la sua giustificazione nella volontà di consolidare una posizione interna messa in discussione dal consolidarsi della polarizzazione con le fazioni della “resistenza militante”) rischia, tuttavia, di approfondire proprio il divario esistente con Hamas e di accentuare la frattura fra Gaza e la West Bank. In questa prospettiva, l’atteggiamento intransigente delle autorità israeliane (volto, da una parte, a indebolire la posizione negoziale dei vertici dell’Autorità palestinese, dall’altra a metterne in discussione la stessa credibilità come interlocutori in un processo politico “produttivo”) appare destinato a favorire una radicalizzazione di questo contrasto, rafforzando le correnti più intransigenti a scapito di quanti (per varie ragioni) sarebbero disposti ad accettare una soluzione di compromesso. Più in generale, il governo di Gerusalemme sembra vedere, nella pressione esercitata sull’interlocutore palestinese, un modo per mantenere il confronto con quest’ultimo fuori da un ambito negoziale considerato foriero di concessioni potenzialmente pericolose.
Il fatto che il 2013 sia, in Israele, anno elettorale accentua queste tendenze, spingendo le parti ad arroccarsi e estremizzare le rispettive posture, al fine di capitalizzare i risultati ottenuti in un contesto fortemente polarizzato e di favorirne l’ulteriore irrigidimento. Le condizioni di vantaggio politico e militare di cui gode lo Stato ebraico rendono pagante questa strategia, soprattutto in una logica di breve periodo come quella che caratterizza una consultazione dall’esito sostanzialmente incerto. Lo spostamento del baricentro elettorale del Paese contribuisce, inoltre, a caricare la issue territoriale di valenze che vanno oltre la “semplice” dimensione della sicurezza. Ovviamente, la presenza di una garanzia più o meno esplicita come quella fornita dagli Stati Uniti rappresenta il pilastro su cui poggia larga parte delle scelte di Gerusalemme, e una revisione (seppure parziale) della posizione di Washington come quella lasciata intravedere nei giorni degli ultimi bombardamenti su Gaza non sarebbe priva di conseguenze in questo campo. Tuttavia, anche da questo punto di vista, il voto dell’Assemblea generale potrebbe rivelarsi controproducente, imponendo all’amministrazione (sia per ragioni interne, sia di ‘prestigio internazionale’) un riallineamento a fianco dell’alleato israeliano destinato a tradursi, per la Casa Bianca, in un coinvolgimento assai più stretto dell’auspicato nelle vicende di un Medio Oriente da cui vorrebbe (forse) disimpegnarsi.
Gianluca Pastori è ricercatore in Storia delle relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano e socio di SeSaMO (Società per gli studi sul Medio Oriente)