Un taccuino collettivo per il cambiamento | T-Mag | il magazine di Tecnè

Un taccuino collettivo per il cambiamento

di Giuliano Castigliego

Ha senso far diagnosi psichiatrica ad una nazione? La risposta è fin troppo ovvia. Ciò nonostante mi permetto qui la provocazione di prendere a prestito categorie dalla psichiatria e dalla psicanalisi per tentare di capire la straordinaria resistenza all’innovazione e più in generale al cambiamento dell’Italia.
Le mie riflessioni prendono le mosse da tre (splendidi) post di @lucadebiase, rispettivamente sull’ agenda del paese come roadmap, come metodo, sulla difficoltà di cambiare l’Italia e sulle partecipanda per il paese, qualora lo si volesse comunque cambiare, oltre che da mie precedenti considerazioni su temi in qualche modo connessi.

Innovazione ed esplorazione

Ma cosa c’entra l’innovazione con la psichiatria? Molto. Visto che innovazione fa rima con esplorazione, la tendenza che Bowlby individua come antitetica e complementare all’attaccamento nello sviluppo umano. Se l’attaccamento risponde alla ricerca evoluzionistica della protezione e dell’accudimento è all’esplorazione che si devono i passi che porteranno all’autonomia individuale. Nella difficile bilancia tra attaccamento ed esplorazione si sviluppa appunto l’avventura di noi umani (ed animali tutti), sempre alla ricerca di una “base sicura” (Bowlby) da lasciare e cui poter tornare. Un equilibrio delicato che non sempre si traduce in un legame “sicuro” con l’altro – e con se stesso – e che può invece condurre, come hanno appunto dimostrato le ricerche empiriche di Bowlby e della Ainsworth sul rapporto madre-bambino, al tipo di legame insicuro, ansioso-ambivalente o resistente da un lato e a quello insicuro, ansioso-evitante dall’altro. Nel primo l’angoscia della separazione dalla madre porta ad un confuso ed ambivalente iperattaccamento, nel secondo all’evitamento del rapporto e all’esplorazione quasi ossessiva dell’ambiente. Ne risultano stili relazionali che possiamo facilmente riconoscere a livello individuale ma che non è certo difficile riscontrare anche sul piano socio-culturale. È constatazione comune e fin troppo banale che il valore dell’attaccamento prevale nelle popolazioni latino-cattoliche mentre quello dell’esplorazione/autonomia trova maggior espressione in quelle nordiche-riformate ed anglosassoni. Se Steve Jobs nel suo celebre discorso all’Università di Stanford del 2005 poteva invitare i laureandi ad un insaziabile e visionaria fame di novità ( “stay hungry, stay foolish”), il messaggio dei papà italiani – dice provocatoriamente Antonio Polito nel suo “Contro i papà” – è l’opposto “Restate sazi, restate conformisti”. Ma in Italia aggiungerei io si è piuttosto “angry”, arrabbiati, anzi incazzati.

La rabbia e la sua elaborazione

E qui arriviamo alla rabbia, che con l’innovazione c’entra, eccome. Anche l’esplorazione nasce in un certo senso dalla rabbia, meglio dalla delusione per un rapporto genitori-figlio/a che non è (più) adeguato/sufficiente. Di fronte alla delusione il/la figlio/a reagisce disinvestendo dal rapporto con il/i genitore/i ed eplorando l’ambiente alla ricerca di nuovi rapporti e dunque anche di nuove parti di sè. Può farlo, a seconda del legame instauratosi, più o meno adeguatamente o invece ossessivamente, maniacalmente con il conseguente raggiungimento di un’autonomia reale nel primo caso o invece solo apparente (pseudo-autonomia) e minata da una fobica paura della vicinanza/dipendenza nel secondo.

Ma l’ elaborazione della rabbia può procedere anche per altre vie. La paura della separazione dalla madre può essere tanto grande da impedire la separazione stessa, fino appunto all’instaurarsi di unl legame ansioso-ambivalente, una sorta di permanente e contraddittoria simbiosi. Ma la rabbia può anche rimaner dentro e non venir espressa. O meglio, poichè non può essere per un motivo o per l’altro (senso di colpa, vergogna, paura delle conseguenze, desiderio di accettazione, etc) manifestata direttamente, può essere espressa in forma, indiretta, mascherata, diffusa, ma non per questo meno dolorosa, dando luogo ad una sorta di permanente “aggressività passiva”.

Ed ecco che finalmente torno all’Italia ed al tema d’origine, la resistenza del nostro paese all’innovazione ed al cambiamento.

Certo sarebbero numerosi i disturbi di personalità che si potrebbero affibbiare all’Italia se volessimo giocare al gioco dell’apprendista psichiatra per nazioni. Non c’è che l’imbarazzo della scelta: disturbo istrionico di personalità: teatralizziamo, melodrammatizziamo tutto, senza prendere nulla sul serio. Disturbo paranoico di personalità: dietro ogni azione vediamo un motivo inconfessabile e segreto, dietro ogni comportamento collettivo un complotto. Disturbo emotivamente instabile di tipo borderline: siamo stabilmente emotivamente instabili, le separazioni dai nostri personaggi nazionali sono quanto mai difficili e spesso esitano in tragedia, siamo frequentemente sull’orlo del suicidio, il senso di vuoto collettivo incombe. Disturbo antisociale di personalità: le leggi per i nemici si applicano, per gli amici si interpretano, etc. Si potrebbe continuare con tutto l’ICD 10 o il nuovo DSM V.

Il disturbo passivo-aggressivo di personalità di personalità (collettiva)

Continuando la provocazione io propenderei tuttavia proprio per il non comune, controverso, disturbo passivo-aggressivo, un disturbo di personalità in cui i rapporti interpersonali sono improntati a comportamenti ostruzionistici, ostili che indicano od esprimono aggressività ma in modo passivo, indiretto, non esplicito. Non mi dilungo qui sulla definizione del disturbo, – secondo l’appendice B del DSM-IV, in attesa delle decisioni definitive del nuovo DSM- V, “un modello (pattern) di atteggiamenti negativistici e di resistenza passiva di fronte alla richiesta di prestazioni adeguate, presente, a partire dalla prima età adulta, in diversi contesti come indicato da almeno 4 delle seguenti caratteristiche” – mi soffermo solo sui tratti caratteristici: resistenza passiva allo svolgimento di compiti sociali di routine e di obiettivi lavorativi, lagnanze di essere frainteso e non apprezzato dagli altri, scontrosità e litigiosità, ingiustificata critica e disprezzo dell’autorità, invidia e risentimento nei confronti delle persone apparentemente più fortunate, esternazioni esagerate e persistenti lagnanze di sfortuna personale, alternanza tra provocazione ostile e pentimento.

Difficile, quasi impossibile non percepire le analogie con tratti del nostro carattere nazionale e della nostra vita pubblica. Si ha anzi la sensazione che chi ha elencato tali caratteristiche abbia avuto familiarità con il nostro lamentoso e spesso passivo paese in cui il tirare a campare, l’ “assettarsi”, lo stare a vedere, la pausa di riflessione divengono spesso a livello politico, sociale, finanziario etc. stile di vita. Ma il punto, si diceva, è il carattere passivo dell’aggressività. Un’aggressività in realtà ben mascherata dal carattere festoso anzi pacioso che sta in superficie. Di primo achitto siam tutti cordiali anzi appunto festosi ed ospitali col nuovo di turno. Fino ad arrivare alla sua idealizzazione, come recenti vicende politiche insegnano. Quando tuttavia l’altro s’azzarda a dar mostra fino in fondo della propria diversità, si ostina a volerla mettere in atto, addirittura a viverla, quando insomma nasce il conflitto, non risolvibile a tavola, in banca o a letto, ecco arrivare l’aggressività. Tutto normale, fisiologico si dirà. Certo l’aggressività va ovunque a braccetto col conflitto.

E bisogna pure ammettere che l’aggressività anche in Italia ha talora forme tutt’altro che nascoste, indirette. Anzi. Nello scontro tra fazioni si trascende la rabbia, l’ira, la maldicenza, la calunnia, per arrivare volentieri al disprezzo, all’odio, alla violenza. Il motivo del contendere non è poi così importante, ci si può odiare per il Palio come per la Callas, per Bartali, come per Berlusconi. Ci sono stati e continuano ad esserci i neri ed i rossi, gli ortodossi e gli eretici, i guelfi ed i ghibellini, i berlusconiani e gli antiberlusconiani, i renziani ed i bersaniani, i montiani e gli antimontiani…Che magari sono gli stessi, ma fotografati ad ore diverse della giornata. Di volta in volta, di fazione in fazione, si grida allo scandalo, vergogna! vergogna! facciamogliela vedere, facciamogliela pagare. La rabbia nel paese sale, spesso a parole, talvolta tragicamente anche nei fatti. La pietra dello scandalo, appartenente naturalmente all’altra fazione, viene di volta in volta additata al pubblico ludibrio – l’indignazione mediatica è, si sa, sport nazionale – espulsa, epurata, minacciata, se non peggio, oppure dimenticata perchè nel frattempo ce n’è una nuova… Che poi è spesso quella che prima guidava la rivolta. E si ricomincia… con l’altra parte a correre e questa ad inseguire. E così in un giro di giostra si inneggia al salvatore che in una trasformazione magica cambierà ed aggiusterà tutto e nell’altro lo si lincia perchè non ha mantenuto le sue promesse – o meglio quelle che noi gli abbiamo messo in bocca. L’importante è non fermarsi mai e soprattutto non trovarsi mai allo stesso tavolo con le stesse regole.

Ma se questa aggressività impulsiva, travolgente, distruttiva, intollerante fino alla violenza può – anzi deve – esprimersi e manifestarsi verso la fazione avversa, rea di ogni turpitudine, ben diverso è il tipo di aggressività consentita quando il conflitto si svolge all’interno della propria fazione, del proprio ambiente sociale e/o di lavoro o con il potere costituito quando insomma si tratta davvero di fare i conti con l’autorità e/o con l’autorevolezza dell’altro. Qui diamo il meglio della nostra doppia morale, davanti salamelecchi ed inchini, dietro improperi ed invettive, parole compiacenti in superficie ma atteggiamenti ostili nei fatti, insomma i pugni in tasca, che si traducono poi in estenuanti tattiche di rinvio, ostruzionismi, polemiche per dettagli insignificanti, scontrosità e litigiosità, risentimenti ed invidie e lagnanze e lamentele a non finire, sentimenti di essere misconosciuti, non apprezzati, insomma la “s. di calimero” – se mi è consentita una nuova estemporanea etichetta, che si va ad aggiungere alle tante cui la psichiatria è avvezza – pulcino che qualche diritto a comparire nell’effige nazionale potrebbe accamparlo. È come se si volesse in tale forma passiva d’aggressività rimuovere il conflitto, anzi fare come se non ci fosse mai stato ed al tempo stesso ci si portasse dietro costantemente il broncio.

Quella che (spesso) manca nel nostro paese è invece un’aggressività sana, capace di mettere il conflitto sul tavolo (e non sotto il tappeto o fuori dalla finestra). Un’aggressività cioè che riconosce ed accetta la rivalità ed ammette anzi promuove il confronto e se necessario la scontro all’interno però di regole comuni, da tutti convenute e rispettate. Un’aggressività matura, edipica che dir si voglia, in cui i rivali si contendono la vittoria sulla base di un merito i cui criteri son sempre difficili da definire ma sono almeno presupposti come dati e approssimativamente conoscibili. In cui non è possibile – almeno non nel 99% dei casi – comprare l’arbitro, cambiar le regole a gioco in corso, nè eliminare fisicamente l’avversario o eliminare ipocritamente il conflitto appellandosi ad una Bontà Divina di cui si pretende di interpretare in esclusiva i misteriosi segni.

Immaturità e morale

Non c’è proprio bisogno di scomodare Freud per immaginare che se le (uniche) forme di aggressività date sono appunto quella impulsiva, intollerante e violenta (contro la fazione avversa) e quella indiretta, passiva, (verso l’autorità) qualcosa non deve quadrare nei nostri meccanismi di difesa e di risoluzione del conflitto. Il che getta una luce non prprio lusinghiera sul nostro grado di maturità ed autonomia collettiva. Che è poi quello che ci rimproveriamo l’un l’altro, di non avere appunto una morale al di sopra delle parti e di piegarci invece agli interessi della fazione. La morale insommma la prendiamo a prestito per combattere il nemico ma non la facciamo nostra. E quando ci troviamo in conflitto con l’autorità assumiamo apparentemente la morale di quest’ultima, salvo far di tutto per ostacolarla, criticarla e disprezzarla. Un po’ come gli adolescenti che fanno i gradassi, se non i violenti, nella lotta tra bande per poi rinnegare tutto davanti ai genitori, che però dietro la schiena disprezzano e boicottano. Come se non ci fossimo ancora liberati dai nostri genitori e non fossimo ancora capaci di dire di no a testa alta, e ci lasciassimo tirare per la giacca, con i pugni in tasca e l’illusione che la violenza sul nemico ci riscatti dalla nostra dipendenza.

Un taccuino collettivo per il cambiamento

Se questa diagnosi per provocazione, ha un qualche pur minimo fondamento – e non è, solo, proiezione sulla collettività di un problema personale – non posso che condividere, anche se con molta minor autorevolezza, quanto già espresso da @lucadebiase, che cioè un’agenda intesa come roadmap, come metodo, potrebbe esserci estremamente utile, soprattutto se non è l’agenda di qualcuno, cui rimproverare mancanze e/o eccessi, ma è, o meglio diventa strada facendo, la nostra. Perché mentre la costruiamo, oltre ad arricchirla di contenuti, definiamo sempre meglio la sua ma anche la nostra identità nel confronto con gli inevitabili conflitti e nel faticoso ma possibile superamento, nè bellicoso nè buonista, degli stessi. Così l’agenda non sarebbe più una raccolta impersonale di impegni o desiderata ma diverrebbe, potrebbe divenire un taccuino, un diario – digitale, per carità – collettivo. In cui c’è anche una parte di noi stessi, ci sono le nostre esperienze e soprattutto le nostre narrazioni del futuro – per usare un bel concetto caro a @lucadebiase . Perchè allora non farlo narrare a tutti i diplomandi e maturandi e raccogliere i loro desideri, le loro proposte in una sintesi accessibile a tutti noi? Perchè non prevedere che nell’ultimo anno di scuola, di qualsiasi scuola, le ragazze ed i ragazzi di una classe definiscano, dopo adeguato confronto/scontro tra loro e con gli insegnanti (in orario scolastico, s’intende) un piccolo, minuscolo, ma concreto obiettivo per migliorare la vita nel loro paese o città, lavorino nel corso dell’anno al progetto e lo realizzino prima della fine dell’anno scolastico. Che sia la bonifica di un canale, la pulizia di un parco, il miglioramento degli orari di una biblioteca, l’aiuto alle persone fisicamente o psichicamente sofferenti, il restauro di una fontana, il miglioramento del servizio di una mensa per poveri, l’ insegnamento dell’italiano agli extracomunitari o l’apprendimento dei rudimenti di una lingua extraeuropea non è così importante. Importante è che nel percorso per definire e realizzare il progetto si riconoscano e si accettino con serietà i conflitti, si stabiliscano le regole per superarli, si riesca a vincere l’intolleranza violenta da un lato e l’ostruzionismo negativista e cinico dall’altro, arrivando in tempi e modi certi ad un risultato concreto. Anche se piccolo, modesto, infinitesimale, sarà sempre un cambiamento significativo, avvenuto con il contributo e nel rispetto di tutti.

Giuliano Castigliego: specialista in psichiatria, FMH psichiatria e psicoterapia, libero professionista, società svizzera Balint, Accademia psicoanalitica Svizzera italiana, presidente uma.na.mente.

 

1 Commento per “Un taccuino collettivo per il cambiamento”

  1. […] nel percorso evolutivo necessario (Francesco). Su questo filone, Giuliano ha scritto una serie di post che – mi scuso per l’estrema sintesi, cui invito a rimediare leggendo gli originali […]

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