Crisi economica e separati in casa
Ha creato scompiglio il tempo d’un battito d’ali il messaggio di David Cameron, la scorsa settimana. Eppure l’inquilino di Downing Street l’ha detta grossa promettendo, in caso di rielezione, un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea da tenersi nel 2017. Che Cameron non sia mai stato un euroentusiasta non è certo una novità, ma in molti sostengono che dietro questa mossa si celi una precisa strategia politica: ricompattare i Tories, particolarmente “sensibili” al tema, dopo giorni di discussioni su una possibile successione e sfruttando un momento storico delicato in cui negoziazioni varie e nuovi strumenti (molti dei quali invisi a Londra, si pensi alla Tobin Tax) hanno compromesso la tenuta dell’Unione. Ma quella di minacciare strappi è una prassi consolidata quando sono in ballo interessi diversi. Il problema, semmai, si pone quando il bottino appare eccessivamente magro per chi rivendica determinati traguardi.
L’Europa degli ultimi anni ha visto riemergere con rinnovato vigore populismi e separatismi, che proprio nei momenti di crisi trovano terreno fertile. Ad esempio, prendendo a modello la Spagna, i catalani vogliono sì l’indipendenza, ma non potrebbero ora fare a meno di Madrid, dato il periodo di crisi economica che li ha costretti a richiedere un salvataggio da 5,5 miliardi di euro oltre che un quadro politico alquanto eterogeneo uscito dalle ultime consultazioni locali. Fermo restando, inoltre, che una procedura poco snella, tra veti e scetticismo, di adesione all’Ue (caldeggiata invece da alcuni schieramenti indipendentisti), complicherebbe ulteriormente una situazione di per sé già abbastanza proibitiva. E stando ai sondaggi di alcune settimane addietro, solo il 37% dei catalani si dice pronto ad affrontare una nuova vita fuori dall’Unione europea.
Si viene così a creare il paradosso per cui l’indipendenza a tutti i livelli fa più gola del solito se c’è da criticare l’austerity degli Stati centrali imposta dall’Ue, ma allo stesso modo manca il coraggio di compiere un passo deciso, percepito piuttosto come una soluzione svantaggiosa. L’assioma che potrebbe giustificare la mossa definitiva in salsa indipendentista lo ha tuttavia enunciato un po’ di tempo fa il primo ministro scozzese, Alex Salmond: «Dovremmo essere noi ad avere il controllo del nostro successo». Quello della Scozia, forse, è il caso più emblematico.
Il 15 ottobre dello scorso anno Salmond e Cameron hanno avallato, con la firma dell’accordo di Edimburgo, il referendum sull’indipendenza della Scozia che si terrà nel 2014. Una decisione che potrebbe complicare il cammino europeo (ci arriviamo).
La Scozia si unì all’Inghilterra nel 1707 attraverso l’Atto di Unione che di fatto sancì la nascita del regno di Gran Bretagna. Nel 1998 venne concesso un dirottamento di poteri e competenze a Edimburgo (Scotland Act), che istituì per via referendaria l’attuale Parlamento scozzese. È da allora, perciò, che sono aumentate le possibilità di una separazione in casa che, con la vittoria dei nazionalisti dello Scottish national party alle elezioni del maggio 2011, non sono più parse delle pretese velleitarie. Tutto, fino a quel momento – osservava l’indomani della vittoria dei nazionalisti The Guardian –, era ruotato attorno alla città di Aberdeen, la “capitale petrolifera d’Europa” che si affaccia sul Mare del Nord. Da sempre, infatti, il petrolio di Aberdeen è l’asso nella manica degli indipendentisti scozzesi, riottosi all’idea di non poter sfruttare in esclusiva una risorsa fondamentale. Ma Salmond non ha potuto fare a meno di stravolgere il paradigma e guardare in faccia la realtà. Il petrolio resta una priorità, certo, ma la «reindustrializzazione del Paese» promessa durante la campagna elettorale non può dipendere solo dall’oro nero, soprattutto perché le riserve – dicono – si stanno esaurendo. Per colmare i vuoti lo Scottish national party non ha mai fatto mistero di mirare alle nuove tecnologie e alle energie rinnovabili, cercando in questo modo di emulare Paesi virtuosi nei settori di riferimento quali Svezia, Danimarca e Norvegia.
La questione è un’altra, però. Ciò a cui mira Edimburgo, sul serio, è l’indipendenza fiscale. Una sorta di “tesoretto” (a livello locale tra il 2008 e il 2009, come riferiva sempre il Guardian, il gettito superava di 1,3 miliardi di sterline la spesa pubblica) garantirebbe a detta dei suoi fautori un’iniziale autosufficienza in caso di scissione. Ma anche qui il condizionale resta d’obbligo. Stando ai risultati dello studio diffuso alla fine dell’anno scorso da Taxpayer Scotland, gli scozzesi rischiano in verità di ritrovarsi sul groppone un debito di 270 miliardi di sterline (tradotto in euro: 300 miliardi), vale a dire più del doppio del Pil annuale.
Ancora una tegola: la retorica nazionalista – ed è qui che potrebbero subentrare dinamiche ostili a Bruxelles – ha sempre assicurato che la Scozia indipendente erediterebbe lo status di Paese membro dell’Ue. Circostanza non veritiera, a sentire il presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, e messa a dura prova dalla posizione ultima di Cameron. Per farla breve, non ci sarebbero margini di manovra: Edimburgo dovrebbe adempiere a tutte le pratiche necessarie per rientrare a far parte del club. E con i tempi burocratici previsti – cioè molto lenti – immaginare una Scozia fuori dall’Europa troppo a lungo è un azzardo persino per gli indipendentisti più incalliti. Specialmente alla luce di un Pil cresciuto, tra il 1997 ed il 2007, del 2% annuo contro il 2,4% complessivo del Regno Unito (per non parlare, appunto, del contraccolpo economico che subirebbe il sempre generoso governo di Londra, il cui intervento, alcuni anni fa, ha evitato in extremis il fallimento della Royal Bank of Scotland). E non c’è isola felice, in questo momento, che possa esaltare gli animi sempre meno entusiasti (secondo diversi sondaggi) degli scozzesi. In prospettiva, dunque, quanto gioverebbe al Regno Unito una “ristrutturazione” di tale portata?
Un merito, in fondo, la crisi lo ha avuto. Quello di far aprire gli occhi ad un’Europa a geometria variabile e alla ricerca di una propria identità – culturale, economica e politica – che la ricollochi al centro degli scenari internazionali. Ma non può ogni volta pretendere di risolvere i problemi fuggendo da se stessa. Persino Cameron dovrebbe pensarci.
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