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Twitter è come la tv. Anzi peggio

di Stefano Iannaccone

Per anni abbiamo criticato la televisione, perché istupidiva le masse veicolando messaggi banali e commerciali. Ma ora, per fare un bel passo avanti, ci affidiamo ai 140 caratteri di Twitter per fare ragionamenti. Da decenni la tv era vista come una scatoletta malefica (la «cattiva maestra» secondo Karl Popper) che costringeva leader politici, giornalisti e opinionisti a essere sintetici per offrire concetti di facile comprensione. L’ostracismo al “piccolo schermo” ha unito intellettuali di varia estrazione: la tirannia del soundbyte, la battuta anteposta al ragionamento, lo slogan in luogo del programma sono elementi che indicano la televisione come fonte di ignoranza e (dis)informazione frammentata. Per non tacere del fatto che, per la sua stessa struttura, la televisione è un flusso di immagini e parole difficile da gestire. La comprensione dello spettatore assume così la forma di una missione impossibile. Tutto sacrosanto, o quantomeno condivisibile.
Sicuri che siamo messi meglio? La tecnologia sta spostando la comunicazione dallo schermo televisivo al display di un computer o di uno smartphone. L’evoluzione è stata salutata con strepiti di giubilo. “Internet è la nuova arena sociale in cui si sviluppano le intelligenze collettive”, sostengono i web-entusiasti. Ma un’osservazione attenta non può ignorare un regresso. Lo slogan, pronunciato in uno studio in tv, diventa un trattato di filosofia in confronto all’aggiornamento di uno status su Twitter. I mitici 140 caratteri di cinguettio non permettono l’articolazione di alcun concetto; anche perché tra hashtag e citazioni di altri account molte lettere vengono “sprecate”. Quindi è legittimo chiedersi dove sia il progresso verso un futuro splendido e popolato da utenti ben informati. Il flusso televisivo, inoltre, impallidisce dinanzi a quello della piattaforma di microblogging, dove gli status si susseguono a ritmo incessante (soprattutto se è molto elevato il numero di following). In alcuni casi è impossibile seguire il liveblogging degli eventi. La sensazione è che le generazioni precedenti siano state accusate di “drogarsi” di tv e, nel tentativo di essere migliori, le nuove generazioni hanno trovato una modalità diversa di istupidimento. Ma l’esito sostanziale non sembra diverso: la massificazione avviene solo su un medium più interattivo.

Un giorno di hashtag. In tv si cercano i noti 15 minuti di celebrità profetizzati da Andy Warhol. Una comparsata in uno studio per marcare la differenza rispetto a chi non è mai finito in video. La mania di visibilità non è molto diversa sulla piattaforma di microblogging chiamata Twitter. Il massimo successo è l’incremento costante di follower, diventando una vera star del web. Tuttavia ci si potrebbe accontentare anche dell’invenzione di un hashtag originale per ottenere quella giornata di gloria. Più o meno i 15 minuti di celebrità di cui sopra. E tutto lascia pensare che in fondo Twitter sia l’allievo naturale della cattiva maestra.
Comicità. Un’altra posizione storicamente radicata spiega come in tv renda meglio la comicità, che talvolta tracima nella stupidità. «La cultura – sostiene il pensiero mainstream – non si può sviluppare in un medium così semplicistico». Un discorso inattaccabile e condivisibile, al di là degli eterni dibattiti tra “apocalittici e integrati”. Eppure navigare su Twitter per capire che Internet non propone scenari migliori. Il maggiore successo viene riscontrato proprio da account che fanno dell’ironia, per non dire della comicità, l’ingrediente principale dei loro status. È pur vero che molti opinion leader sono personaggi di spessore culturale, ma del resto anche Saviano in tv ottiene straripanti risultati in termini di share. E così dalla dittatura della banalità passiamo alla tirannide di un cinguettio.

Ps. La critica potrebbe continuare, e forse continuerà in altri articoli. Ma devo prima aggiornare il mio profilo Twitter… per certificare la mia esistenza.

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