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I primi 50 anni di MJ23

di Matteo Buttaroni

Sei titoli NBA, cinque MVP of the year, un oro olimpico, 14 partecipazioni all’All Star Games con relativi tre All-Star MVP Award: sono questi alcuni dei numeri che anno fatto di un semplice giocatore di pallacanestro un campione, uno dei più grandi atleti del XX secolo.
Nato a Brooklyn il 17 febbraio 1963 secondo la National Basketball Association è “per acclamazione, il più grande giocatore di basket di tutti i tempi”. Tuttavia, come per altre star di questo sport, non è stato sempre così: basti pensare che dopo aver lasciato il college è stato solo la terza scelta dei Chicago Bulls, squadra dove ha militato per la maggior parte della sua carriera, squadra che, visti i successi raggiunti proprio grazie a lui, si è dovuta ricredere. Ma andiamo con ordine.
Poco dopo la nascita i genitori Deloris, impiegata in una banca, e James, meccanico, decidono di trasferirsi nel North Carolina, dove più avanti la futura star comincerà a farsi un nome in quasi tutti gli sport. La sua carriera sportiva inizia nel football americano dove le sue doti agonistiche si vedono soprattutto nel ruolo di quarterback. Contemporaneamente prova ad affacciarsi in altri due sport: il baseball dove riscuote abbastanza successo come lanciatore e nel basketball dove però prende la prima delusione. Il ragazzo, dopo le selezioni preliminari, viene escluso dalla squadra della scuola. Fortunatamente non si butta giù e decide di allenarsi per conto proprio per ripresentarsi l’anno successivo. In questo anno di stallo gioca per la Junior Varsity del liceo, la squadra delle riserve. Tra le quali, però, realizza la sua prima schiacciata.
L’anno di allenamento gli fa guadagnare il posto da titolare nella prima squadra dove, grazie ad una media di 20 punti a partita, ottiene il suo primo titolo nazionale. L’ultimo anno nella Laney High school lo vede ancora una volta vincere il titolo e ancora una volta risulta come il miglior giocatore della squadra e persino del North Carolina. Riconoscimento che lo fa convocare all’All Star Game of High School. Diventato ormai un astro nascente, viene notato dal coach Dean Smith che lo recluta per la prestigiosa University of North Carolina.
E’ proprio qui che si prende il numero 23, il suo 23: un numero ormai leggendario. Al punto da ritirarlo da ogni casacca che ha vestito nel corso della carriera.
Nonostante non venga considerato maturo abbastanza per essere un leader, nel suo primo anno di università, nel 1982, fa guadagnare il titolo NCAA alla sua squadra grazie ad un tiro sullo scadere dell’ultima partita. Dopo tre stagioni di college, durante le quali si aggiudica i premi Naismith College Player of the Year, il John R. Wooden Award e l’Adolph Rupp Trophy decide di lasciare la scuola per dedicarsi unicamente al Draft NBA 1984 (evento annuale nella NBA, nel quale le 30 squadre possono scegliere nuovi giocatori provenienti dai college). Sempre nel 1984 viene convocato nella nazionale per disputare la XXIII Olimpiade di Los Angeles. Appena 21enne guadagna il suo primo oro.
Grazie al successo olimpico viene scelto dai Chicago Bulls. Inizialmente non ottiene il successo che tutti si aspetterebbero: viene infatti convocato come terza scelta assoluta. Ma è qui che la sua figura ha una vera e propria ascesa. I Chicago Bulls, prima del suo arrivo, erano una delle squadre peggiori dell’NBA e proprio grazie a questa guardia tiratrice/playmaker/ala piccola che i tori rossi diventarono l’icona degli anni ’90 del basket internazionale.
Il suo esordio nella lega massima avviene contro i Washington Bullets dove, mettendo a segno 16 punti, porta i Bulls alla prima di una lunga serie di vittorie.
Inizia una nuova stagione, ma non per per il giocatore, che si infortuna durante una partita contro i Golden State Warriors rimediando cinque mesi di stop. Rientrato porta i Bulls ai Playoff dove, contro i Boston Celtics, realizza lo straordinario record, tutt’oggi imbattutto, di 63 punti. Cifra incredibile, tanto da far esclamare al coach della squadra avversaria, Larry Bird, la storica frase: “Penso sia Dio travestito”.
Si arriva così alla terza stagione del fenomeno nei Bulls e, con la media di 37,1 punti a partita, diventa per la prima volta miglior marcatore della stagione. E’ quindi nel 1986 che la sua stella conferma la sua luminescenza: nelle 82 partite della stagione regolare per 77 volte è stato il miglior realizzatore della sua squadra, per due volte regala alla squadra 61 punti e per otto volte supera i 50 punti e per addirittura trentasette volte ne mette a segno oltre i 39. Sono 3041 i punti segnati in una sola stagione mettendo a segno il 35% dei punti totali realizzati dalla squadra.
Se tutto ciò evidenzia le sue capacità offensive non deve tuttavia lasciare in ombra il suo talento difensivo: in un solo campionato ha recuperato almeno 200 palle e fatto almeno 100 stoppate. Grazie a queste cifre si aggiudica anche il titolo di NBA Defensive Player of the Year Award.
Grazie alla gare di schiacciate, Slum Dunk Contest, che naturalmente vince, gli viene coniato il soprannome Air. In particolare, per una schiacciata fatta saltando dalla lunetta e arrivando direttamente al canestro, attaccandocisi come da tradizione. Volando, quasi.
In questo periodo viene considerato una vera e propria gallina dalle uova d’oro e tutte le marche (prima fra tutte la Nike con la linea Air, fatta apposta per lui), di sport e non, cercano di siglare un accordo con il campione. Non solo: anche il valore dei Bulls cresce in maniera impressionante, passando da 16 a 120 milioni di dollari.
L’apice (e di conseguenza quello dei Bulls) arriva negli anni ’90: nei tre anni a seguire ’90, ’91, ’92 i Chicago Bulls vincono il titolo portando a segno il Three-peat. In questi anni il campione stabilisce un altro record, battuto in seguito da Shaquille O’Neal: per tre finali di seguito viene eletto come MVP.
Nel 1992 con una squadra da sogno, soprannominata appunto Dream Team (è ancora oggi considerata la squadra di basket più forte di tutti i tempi), partecipa ai giochi olimpici di Barcellona. La squadra, formata da Scottie Pippen, Magic Johnson, Larry Bird, Charles Barkley, Clyde Drexler, Patrick Ewing, Karl Malone, David Robinson, John Stockton, Chris Mullin e Christian Laettner, guidata da Chuck Daly, gli fa conquistare il suo secondo oro olimpico.
Ma come in tutte le favole, anche la sua segna un momento di difficoltà. La “crisi” segue, purtroppo, l’omicidio del padre, ucciso nel 1993 in auto mentre si riposava durante un lungo viaggio. E’ il 6 ottobre del 1993 quando di fronte ai telegiornali di tutto il mondo annuncia il suo primo ritiro dalla pallacanestro. La decisione colpisce i suoi milioni di fan. Il basket era diventato una forma d’arte che stava perdendo il suo esponente più grande. Non era un giocatore qualunque, era un atleta mondiale. Non esistevano confini che la sua fama non potesse attraversare, non esistevano nazionalità o culture che potevano impedirgli di essere considerato il migliore. Il mondo dello sport era in lutto.
La sua ultima partita viene disputata il 9 settembre 1994 in una competizione di beneficenza organizzata da Scottie Pippen nel Chicago Stadium, prossimo alla demolizione. La cerimonia di addio si tiene però qualche giorno dopo nel nuovo stadio dei Bulls, lo United Center, dove nel piazzale antistante viene eretta una statua del Campione. Sulla targa si legge: “The best there ever was, the best there ever will be”. Oltre al giocatore, anche il numero 23 lascia il parquet.
Dopo l’addio alla pallacanestro decide di dedicarsi allo sport più amato dal padre, il baseball. Nel 1994 firma un contratto con i Chicago White Sox che lo affidano però alla seconda squadra, i Birmingham Barons. Nonostante le aspettative ottiene modesti risultati: 127 partite giocate con una media di battuta del 20,2%, tre home run, 51 punti, 30 basi rubate e 11 errori. Dopo un anno e mezzo dedicato a questo sport decide di lasciare, probabilmente anche a causa del basso rendimento e di conseguenza alle critiche poco lusinghiere.
È il 18 marzo del 1995 quando le speranze di milioni di fan diventano realtà. I Chicago Bulls fanno girare una nota in cui si legge che il campione ha interrotto il suo volontario ritiro di 17 mesi e che “esordirà domenica a Indianapolis contro gli Indiana Pacers”. Dopo una prima apparizione con il numero 45, il numero 23 torna finalmente in campo. Il primo anno, quello del ritorno, è un po’ deludente. Ma l’anno seguente riporta i Bulls alla vittoria del titolo. In questo anno il cestista di Brooklyn conquista anche il Triple Crown, ovvero il conseguimento di MVP dell’All Star Game, della stagione regolare e delle finali, tutto in una sola stagione.
La sua stella fa diventare le partite dei Bulls eventi mediatici senza precedenti, tanto che per non essere assediati dai fan, nelle trasferte i Bulls sono costretti ad affittare interi alberghi. Dopo aver conseguito il suo quinto titolo annuncia nuovamente il ritiro. Per molti l’ultimo. Da qui si dedica al golf e alla gestione dei Washington Wizard. Nel 2001 decide di allontanarsi dalla dirigenza e di tornare in campo, proprio con i Wizard di sua proprietà e sempre con il mitico e storico 23. Altro ritorno, altro boom mediatico: i Wizard diventano la squadra più seguita dell’intera NBA. Durante le due stagioni ai Wizard il giocatore percepisce oltre un milione di dollari che devolve interamente in beneficenza alle vittime dell’11 settembre. Alla “tenera età” di 38 anni partecipa all’All Star Game, il suo 14esimo (l’ultimo lo giocherà nel 2003 e per l’occasione le divise saranno una imitazione di quelle che utilizzò nell’edizione del 1988, quando si aggiudicò il suo primo MVP).
Stanco di record? Affatto. Nel 2003 è il primo giocatore over-40 a segnare più di 40 punti in una partita. Ma è in quell’anno che decide di ritirarsi, stavolta definitivamente.
Ora è un uomo di cinquant’anni (compiuti il 17 febbraio) che incarna ancora oggi un sogno. E’ proprietario dei Charlotte Bobcats ed è proprio grazie a questa squadra, alle canottiere in giro per il mondo, ai record rimasti imbattuti e alla sua statua che il suo fenomeno echeggia nel cuore di milioni di sportivi. E ogni volta che capita di imbattersi nel numero 23, sotto qualsiasi forma, non può che tornare alla mente lui: MJ23, Michael Jordan.

 

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