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Monti poteva dare stabilità all’Italia

di Carlo Buttaroni

mario_montiSe la coalizione di Monti si fosse alleata con il centrosinistra oggi l’Italia avrebbe un governo stabile. Anche se Monti si fosse alleato con il centrodestra sarebbe stato più semplice formare un governo. Meno stabile, perché al Senato i numeri non avrebbero restituito una maggioranza altrettanto forte, ma la base di partenza sarebbe stata meno distante dal traguardo di quella solidità politica che oggi sembra lontana anni luce. Non è andata così. E alla schizofrenia del nostro sistema elettorale si sono sommate scelte come quella di costituire un polo di centro alternativo a centrosinistra e centrodestra. Fatto, questo, che ha contribuito a far precipitare il Paese nella paralisi istituzionale in cui si trova. Eppure, Mario Monti è stato il Presidente del Consiglio sostenuto dalla più ampia maggioranza della storia della Repubblica, ed egli stesso ha posto più volte l’accento sul fatto di essere riuscito a far sedere allo stesso tavolo le forze antagoniste che avevano animato, per vent’anni, il conflittuale bipolarismo italiano.
Se le elezioni del 24 e 25 febbraio hanno rappresentato un terremoto, è stato anche per l’incapacità di interpretare i segnali della frattura sociale e di un probabile stallo istituzionale, dando risposte adeguate alla fragilità del sistema politico, i cui sintomi sono stati aggravati dalla crisi economica e da un sistema elettorale folle. Uno tsunami elettorale dagli effetti particolarmente evidenti, perché in un sistema politico caratterizzato sempre da fluttuazioni lente, l’onda d’urto ha portato milioni di elettori a cambiare posizione politica, con una mobilità mai registrata in precedenza. A pagarne gli effetti devastanti, sono state le forze politiche che si sono alternate nel governo del Paese negli ultimi vent’anni, ma anche le forze centriste che in questa tornata avrebbero voluto rappresentare l’alternativa hanno raccolto assai meno delle aspettative.
Se paragoniamo le elezioni del 2006 e quelle del 2013, ecco che la contabilità elettorale registra un saldo negativo per le coalizioni guidate dai due principali partiti – Pd (o Ulivo) e Pdl (o Forza Italia) – di circa 18 milioni di voti. Nello stesso periodo, si è registrata la crescita impetuosa di offerte alternative che hanno raccolto 200mila voti nel 2006, 5,7 milioni nel 2008 e 14 milioni nelle elezioni di quest’anno, di cui 8,7 milioni di voti solo verso il Movimento 5 Stelle. Mutamenti di tale portata sono rarissimi in regimi democratici consolidati e tendono a manifestarsi durante fasi di collasso dei sistemi, di cui la frammentazione dell’offerta politica è una delle manifestazioni sintomatiche. Se non si parte da queste premesse, è impossibile collocare il tentativo di Bersani nella giusta dimensione. Il primo elemento da tenere in considerazione è che, stavolta, non è possibile determinare una maggioranza seguendo il tradizionale percorso delle alleanze politiche. Il centrosinistra (55% dei seggi alla Camera e 39% al Senato) è alternativo al centrodestra (20% dei seggi alla Camera e il 37% al Senato) e la coalizione di Bersani ha chiesto il voto sulla base di un programma politico che lo distanzia moltissimo proprio dalla principale forza antagonista guidata da Berlusconi.
Su un altro livello si colloca il centro di Mario Monti (7% dei seggi alla Camera e 6% al Senato) che, partendo dalla campagna elettorale, non ha mancato di rimarcare le distanze sia dal centrosinistra sia dal centrodestra (soprattutto da quest’ultimo). Su un piano ancora diverso il Movimento 5 Stelle (17% dei seggi sia alla Camera che al Senato), che vuole rappresentare un’alternativa non solo alle forze politiche tradizionali ma anche al bipolarismo (e al tripolarismo) che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni. Per Grillo, infatti, nessun accordo è possibile, né con il centrosinistra, né con il centrodestra, né con l’area di Monti. Quello che è uscito dalle urne è il Parlamento dei “tutti contro tutti”. Le elevate probabilità di uno stallo post-elettorale erano abbastanza prevedibili con questi presupposti e se qualcosa poteva essere fatto per limitare queste possibilità, andava fatto prima.
Il centrosinistra, come ha ricordato il Capo dello Stato, è la coalizione che ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e dispone della maggioranza relativa al Senato. E’ intorno a questo elemento che va cercata una soluzione. Il merito di Bersani è quello di non aver ceduto a soluzioni provvisorie e instabili, come l’ipotesi di un “governissimo”.
L’unica strada percorribile ora è anche quella più nuova: un governo basato sui contenuti, sulle azioni da mettere in campo e le riforme da realizzare, trovando all’interno dell’Assemblea parlamentare le convergenze in grado di dargli la forza legislativa necessaria. Una strada mai percorsa in precedenza perché, nonostante la Costituzione abbia dato forma a una democrazia parlamentare, i partiti hanno sempre cercato di stabilizzare i governi con coalizioni pre-definite. Un metodo che ha fornito buona prova di se finché ci sono stati i grandi partiti di massa ma che, negli anni della Seconda Repubblica, è degenerato nella subalternità del Parlamento alle decisioni dei governi, o addirittura di leader personali.
Il metodo Bersani ora rovescia completamente il piano inclinato che ha contribuito non poco al deterioramento della nostra democrazia e recupera il ruolo dell’Assemblea legislativa all’ispirazione costituzionale. Il metodo non è più quello del “minimo comune denominatore” tra le forze politiche ma quello del “massimo comune divisore”. Sotto questo punto di vista, definirlo “governo di minoranza” è riduttivo, perché la ricerca di una maggioranza parlamentare a perimetro variabile rappresenta un metodo democratico ampiamente praticato in altri Paesi come, ad esempio, gli Stati Uniti. Il tentativo è ovviamente difficile ma rappresenta la sola strada possibile. Dal suo esito può nascere un’Italia diversa.
La vera alternativa è, in pratica, soltanto il voto. E non potrebbe essere altrimenti, perché il Paese ha bisogno di ritrovarsi in uno spazio comune fatto di trasparenze, allontanandosi il più possibile da quei compromessi al ribasso che hanno portato l’Italia ad avvitarsi su se stessa. Chi ha detto che – se fosse bocciata la proposta del governo “parlamentare” – tornare al voto sarebbe il peggiore dei mali? D’altronde, come potrebbe un parlamento imbrigliato nelle dispute su appartenenze e fedeltà a un partito o un leader, riformare la più importante delle leggi quale, appunto, quella elettorale che dà vita al sistema politico? La strada intrapresa ha un unico punto d’arrivo: il Parlamento. E’ lì che le forze politiche dovranno valutare se il programma di Bersani può determinare le convergenze necessarie a far decollare un suo eventuale governo, assumendosi la responsabilità di una scelta, fosse anche quella di nuove elezioni. Il Paese non può attendere oltre, e rinvii o altri governi non politici rischierebbero di ritardare ulteriormente gli interventi necessari a evitare il precipitare devastante delle questioni economiche e sociali. Ma, ovviamente, il ritorno al voto presuppone la costruzione di un’offerta politica diversa da quella che ha portato allo stallo attuale.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 25 marzo. Sfoglia l’analisi Tecnè in pdf

 

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