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La crisi dei partiti lunga vent’anni

di Carlo Buttaroni

grillo_monti_napolitano_bersani_berlusconiLa crisi politica è profondissima. Non riguarda solo il Pd, ma l’intero sistema dei partiti. E non nasce nelle ultime settimane. Basta scorrere i risultati elettorali degli ultimi vent’anni per rendersi conto di uno scenario che ha proposto dissolvenze più che evoluzioni, senza trovare mai una configurazione definitiva, incapace di andare oltre le contingenze elettorali e misurarsi con le sfide vere del Paese. Oggi il Partito democratico è impantanato in una crisi che riaccende antiche contraddizioni. Ma sei mesi fa in crisi era il Pdl. Una crisi d’identità, di politiche e di leadership, altrettanto profonda, tanto che lo stesso Berlusconi sembrava intenzionato a lasciare il partito per dar vita a una nuova “Forza Italia”. La crisi del centrodestra, fino a prima delle elezioni si è riflessa nella vicenda delle primarie annunciate, rinviate e annullate, nella diaspora di una parte importante dei suoi gruppi dirigenti, nella sofferta ricerca di una nuova leadership, che ha trovato una soluzione approssimativa nel compromesso di una coalizione con più candidati alla presidenza del Consiglio.
Pochi mesi prima delle elezioni, lo scenario politico preludeva a una vittoria schiacciante del centrosinistra. In pochissimo tempo il quadro è cambiato completamente, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ciò non basta, però, a spiegare le 48 ore di follia che hanno portato al collasso del Partito democratico. Dare la responsabilità a Bersani di quanto accaduto nella travagliata vicenda dell’elezione del presidente della Repubblica è ingiusto. E significa non aver capito quanto la crisi sia profonda e avvolga tutti gli attori in campo, ben al di là delle scelte che hanno pur avuto il loro peso negativo nella contabilità politica di questi giorni.
Nelle ultime settimane, ancora una volta, è stata protagonista una politica prigioniera di se stessa e delle sue logiche. Il disorientamento che avvolge gli elettori non nasce nelle vicende dell’ultima settimana, né nello stallo istituzionale successivo al voto di febbraio. Ha origine nel degrado progressivo degli ultimi anni, nel dissolvimento di ogni punto di riferimento che perimetri le differenze. La rabbia che si è riversata nelle piazze e nella rete, mette in luce i gravi difetti della politica, li denuncia e li condanna ma non offre innesti al cambiamento e a un riformismo vero. Si batte per il cambiamento. E questo è giusto. Ma rimangono senza risposta le domande che presuppongono un progetto, una prospettiva, una direzione. E questo non favorisce la crescita della democrazia: al contrario, ne alimenta il declino.
Giovanni Sartori ha definito questo diffuso sentimento “liquidismo”: rimuovere senza avere nulla da offrire, nessun riscatto, nessun annuncio. Solo risentimento. E la storia del secolo scorso insegna dove conduce il demonio del “via tutti” che oggi l’antipolitica dipinge come la soluzione salvifica.
Per risolvere la sua crisi, la politica deve invece fare i conti con se stessa e ripensare gli oggetti della sua azione, perché in tutte le sue forme conserva sempre una confluenza con l’agire, cioè con la capacità di fare delle scelte, di creare delle idee, di produrre azioni che governino la società e la sua complessità. La crisi della politica, infatti, nasce proprio come crisi dell’agire e si aggrava nel momento in cui sembra poter decidere solo in subordine, prima al sistema economico, poi all’apparato tecnico.
Se i conti non tornano è perché la malattia cui è affetta la politica nasce dall’impotenza di fronte alle scelte che deve compiere. Il problema è come ridare forza e ruolo alla politica, restituendogli il primato delle scelte e del loro significato, dopo anni di degenerazione e delegittimazione che hanno progressivamente eroso la fiducia e minato le basi stesse della democrazia.
Che fare? Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte a favore dei cittadini, visti non più come strumento per raggiungere le istituzioni, ma come fine ultimo di azioni ispirate al bene comune. Occorre definire nuovi diritti e nuovi desideri. Occorre dare forma alla domanda di un nuovo patto, ispirato al comune sentire di una civile appartenenza, che tragga forza dal desiderio di dirigersi non più verso l’utile individuale, ma verso il bene della comunità, dove la libertà dell’individuo si accresce e si rafforza in un sistema di valori e di solidarietà intelligente.
Vi è una parte importante della società che esprime un’ansia di rinnovamento. E questa trova progressivamente forma in una politica che riparte dal basso, che inizia a progettare e farsi carico di nuove fondamenta che poggiano su solide basi etiche e morali.
Il deficit non riguarda la domanda, ma l’offerta di politica. Una perdita che si rileva attraverso il suo riassorbimento nel tessuto di una conflittualità multiforme, accompagnata da nessuna ultima istanza che determini la congiuntura e l’evoluzione, da nessun altro vettore di trasformazione che non sia una risultante provvisoria. Un deficit di politica che si riflette nel declino delle grandi organizzazioni, al quale fa da contraltare la nascita di nuove comunità di prossimità, fondate su una condivisione da esprimersi temporaneamente, prive però di una progettualità di medio/lungo periodo.
La sfida ultima alla quale, oggi, è chiamata la politica è quella di sapersi ricostituire in agenzia di senso, soprattutto di fronte alle nuove e variegate figure sociali, facendosi interprete e dimostrandosi all’altezza della nuova complessità della società degli imperfettamente distinti.
Ma è qui che si consuma l’altro paradosso: il sistema dei partiti, anziché aprirsi e farsi interprete delle nuove istanze, sembra teso a preservare se stesso, incapace di rispondere alle nuove sfide, allontanandosi sempre più dalla società, proprio mentre quest’ultima si avvicina sempre più alla politica.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 22 aprile. Sfoglia l’indagine Tecnè

 

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