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Un welfare moderno serve alla crescita

di Carlo Buttaroni

famiglia_welfare1Il modello economico e sociale del futuro fonderà ancora sull’idea di uno Stato che attraverso norme, servizi pubblici, stili di vita e modelli culturali tende a ridurre i rischi individuali facendosene carico come comunità? Inutile girarci intorno: è questa la questione fondamentale quando si parla di riforme. Perché il welfare, cioè quel complesso sistema di accompagnamento nei percorsi di vita e di sostegno alla fragilità, rappresenta il “centro del centro” delle questioni economiche e sociali. La crisi economica ne ha evidenziati con forza il ruolo e il valore sociale. Naturalmente occorre riprenderlo, rivisitarlo, riformarlo, come affermato anche dal governatore della Bce Mario Draghi.
Nella seconda metà del secolo scorso, il crescente sistema di protezioni sociali ha garantito a fasce sempre più ampie di popolazione uno sviluppo legato a elevati parametri di qualità della vita e ad adeguati apparati di protezione sociale. Sono stati gli anni in cui in tutta Europa si è affermata la classe media, principale logos ideologico delle politiche socialdemocratiche e liberali. È arrivato un momento in cui, però, questo modello economico e sociale entra in sofferenza. Si riduce progressivamente la possibilità di finanziarlo facendo leva sui ceti medi, che hanno rappresentato storicamente il principale bacino di approvvigionamento e di domanda aggregata di servizi pubblici, mentre cresce il fabbisogno economico determinato dall’aumento della vita media e dal costo della sanità pubblica. In Italia, in particolare, si è sviluppato un sistema di welfare peculiare rispetto agli altri Paesi europei, centrato sulla famiglia più che su un sistema diffuso di apparati e d’infrastrutture sociali. E anche per questo l’impatto della crisi è stato più pesante e maggiormente avvertito. Le famiglie italiane sono state le più colpite dalla crisi economica e quelle costrette a fronteggiare livelli d’incertezza più elevati, accentuati dalle politiche restrittive della spesa pubblica.
Basti pensare che nel momento peggiore della crisi la riduzione dei redditi delle famiglie italiane è stata del 4%, a fronte di una riduzione del Pil del 6%. Nella maggior parte degli altri Paesi avanzati, invece, nonostante la contrazione del prodotto interno lordo, il reddito delle famiglie è cresciuto. E’ stato così in Francia (Pil -3% e redditi familiari +2%), in Germania e negli Stati Uniti (Pil -4% e redditi delle famiglie +0,5%). In Italia, gli interventi di riequilibrio della finanza pubblica hanno inciso invece proprio sulle famiglie dal punto di vista dei redditi e del sistema di protezione sociale.
D’altronde la spesa sociale in Italia è sempre stata più bassa rispetto alla media europea. Ed è stata anche la prima voce a essere ridimensionata dalla riduzione della spesa pubblica. Eppure, le politiche sociali rappresentano uno straordinario volano proprio per la crescita economica. In Italia la spesa per le prestazioni sociali rappresenta il 29,9% del Pil, ben al di sotto, quindi, della media dell’Europa dei 15. Basta guardare chi c’è in testa alla classifica degli investimenti sociali per capire che un robusto sistema di welfare rende più forti, non più deboli. Francia, Danimarca, Paesi Bassi, Germania, Finlandia e Svezia hanno redditi pro-capite più elevati e tassi di crescita superiori a quelli italiani, pur destinando quote maggiore di Pil al sistema di protezione sociale. Anche se si guarda a ciò che accade in Italia la dinamica è analoga e a maggiori investimenti sociali corrispondono livelli di ricchezza più elevati. Fatta 100 la spesa sociale pro-capite, in Trentino Alto Adige è 226, in Emilia Romagna 151, mentre in Campania è 47, in Calabria 22; fatto 100 il reddito pro-capite degli italiani, in Trentino è 124, in Emilia Romagna è 122, mentre in Campania e Calabria rispettivamente 64 e 61. L’idea che la spesa sociale sia improduttiva è, quindi, tutta da dimostrare. Semmai, è vero il contrario: gli “investimenti sociali” sostengono lo sviluppo del sistema economico. Certo, occorre ripensare le politiche sociali e adeguarle all’oggi. E questo può avvenire soltanto attraverso un’attenta programmazione e pianificazione. Tra i motivi della crisi del sistema delle politiche sociali nel nostro Paese, c’è proprio una programmazione debole, centralizzata e poco strutturata, con un coordinamento tra gli attori del welfare, pubblici e privati, poco convincente.
Il modello di politica sociale ha dato in passato grande spazio all’iniziativa degli enti privati, in particolare no profit, che hanno dato un contributo decisivo. Ma oggi, l’intero settore degli enti produttori necessita una riorganizzazione per incrementare qualità ed efficienza. In tutti i principali Paesi europei, l’esigenza di aumentare il livello di qualità dei servizi sociali ha indotto la pubblica amministrazione a introdurre e sperimentare meccanismi di regolazione più progrediti e articolati.
Per modernizzare le politiche sociali è importante introdurre, anche in Italia, sistemi e processi che permettano di rendere dinamico il settore dell’offerta di servizi assicurando, al contempo, gli elementi di qualità che le prestazioni sociali devono garantire per rispondere in modo adeguato ai bisogni dei cittadini. E dovrebbero essere superati anche quegli atteggiamenti sociali diffusi che identificano i servizi sociali esclusivamente come strumenti per rispondere ai problemi di fasce di cittadini caratterizzate da forti stigmi sociali (poveri, malati psichici, tossicodipendenti, ecc.), affermando l’idea che un Paese che protegge i rischi di fragilità sociale è un Paese che investe su se stesso stimolando la crescita. Il contrario, cioè, di quanti ritenevano e ritengono che i sistemi di protezione sociale atrofizzino i muscoli che spingono gli individui all’affermazione individuale e, quindi, alla crescita economica. Una convinzione che si accompagnava a una concezione di un mercato economico e finanziario libero da ogni principio ordinatore. Dove ci ha portato questa convinzione è già nella contabilità della storia. E la prima vittima della crisi economica è proprio l’idea che il mercato sia in grado di autoregolarsi e autorigenerarsi. Se il welfare ha avuto proprio dalla crisi economica il suo riscatto storico, non viene meno la necessità di un suo adeguamento rispetto a una società che è profondamente cambiata.
Per superare le inadeguatezze e le inefficienze, ma anche gli eccessi e gli sprechi, occorre un modo nuovo di governare le politiche sociali. E’ per questo motivo che la pianificazione pubblica degli obiettivi diventa condizione essenziale per il superamento della crisi del welfare. Sino a oggi abbiamo visto prevalere risultati influenzati da meccanismi incontrollati del “mercato”. Il tempo ora è scaduto e i segnali sono chiari e inequivocabili. Il vento deve cambiare e restituire la giusta sovranità economica, insieme alla corretta responsabilità sociale, ai cittadini e a una politica consapevole delle questioni che ha davanti e che non può più eludere.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 29 aprile. Sfoglia l’indagine Tecnè.

 

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