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Crisi del Pd riflesso del ko della destra

di Carlo Buttaroni

partito_democraticoE se la crisi del Partito democratico fosse, in realtà, il riflesso della crisi della destra e non della sinistra? Se derivasse dalla responsabilità di assumersi il peso del fallimento delle teorie iperliberiste? Se il disorientamento nascesse dalla scoperta di una società dove le classi sociali sono aumentate anziché ridursi? Se il problema non derivasse dall’impossibilità di governare i grandi processi economici e sociali ma dall’aver disperso il radicamento sociale dopo anni di avvitamenti verticistici ed elitari?
Il Pd ha la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e quella relativa al Senato, occupa le prime tre cariche dello Stato, la presidenza del Consiglio, la maggioranza dei ministri, guida gran parte delle commissioni parlamentari e detiene la maggioranza dei presidenti di Regione. Perché allora non esercita queste leve per entrare nel cuore della società e assumere la rappresentanza del mondo del lavoro, dei ceti medi produttivi, delle piccole e medie imprese che hanno urgente bisogno di un governo che sposti il baricentro delle scelte politiche dalla finanza alla società e all’economia reale? Perché, anziché dilaniarsi nel tentativo di trovare equilibri al suo interno, non esercita il potere istituzionale e politico per dispiegare una reale azione riformatrice nella società?
È innegabile che disaffezione politica e rabbia sociale hanno giocato un ruolo fondamentale nella crisi che ha travolto il Pd, e che una parte di responsabilità si ritrova nella coabitazione forzata con il centrodestra, nel governo Letta ora, nel governo Monti prima. Ma le ragioni profonde della crisi del Partito democratico non devono sfuggire e occorre riprenderle nei termini politici che gli sono propri. Il Pd oggi appare costretto nella contraddizione fra politiche di stampo socialdemocratico e un neocentrismo ispirato a un’agenda liberale, costrette a convivere nello spazio stretto dell’opposizione a Berlusconi. È questo che ha prodotto un deficit di progettualità politica e che è esploso proprio nel momento in cui il Pd è stato chiamato a sostenere il peso principale della governabilità, dopo il fallimento delle ricette economiche liberiste.
L’Europa suggerisce vie alternative allo stallo politico della sinistra italiana: in Francia come in Germania, i partiti della sinistra democratica sembrano muoversi verso la riscoperta (o quantomeno la rielaborazione) dei valori tradizionali delle socialdemocrazie europee, facendo leva sull’incompatibilità di politiche di austerità con la crescita e l’occupazione, nonché ponendosi contro le ricette della destra liberale che hanno portato l’Unione alla situazione economica attuale. E proprio su queste basi si fonda un documento che i socialisti francesi hanno recentemente approvato in vista della Convenzione sull’Europa di giugno che, a sua volta, porrà le basi di una strategia comune di tutti i partiti socialisti e democratici del Pse. Affrontare la destra, è scritto nel documento, significa rimettere le ragioni della crescita e del lavoro al centro del dibattito politico, indignarsi per il degrado delle condizioni di vita dei popoli, per l’oblio in cui sono stati relegati i valori fondanti del progetto europeo. Significa affermare un’integrazione solidale con misure economiche e sociali che abbiano come principi ispiratori quelli del benessere e della tutela dei cittadini.
“È raro che i dibattiti economici si concludano con un ko tecnico – ha scritto recentemente il premio nobel per leconomia Paul Krugman riferendosi alle politiche del rigore -. Tuttavia, il dibattito che oppone keynesiani ai fautori dell’austerità si avvicina molto a un simile esito. […] Se oggi abbiamo una disoccupazione di massa non è perché in passato abbiamo speso troppo, ma perché adesso spendiamo troppo poco, e questo problema potrebbe e dovrebbe essere risolto. […]. I ricchi preferiscono ricorrere al taglio delle spese sulla sanità e la previdenza — ovvero sui programmi assistenziali — mentre il grande pubblico vorrebbe che la spesa in quei settori fosse incrementata. […] Da quando abbiamo optato per l’austerità, i lavoratori vivono tempi cupi, ma i ricchi non se la passano così male, avendo tratto vantaggio dall’incremento dei profitti e dagli aumenti della Borsa a dispetto del deteriorare dei dati sulla disoccupazione”.
Queste riflessioni rendono evidente quale dovrebbe essere, per il Pd, il“campo economico e sociale” di riferimento per proporre la sua idea di Paese. Ma le questioni economiche e sociali non esauriscono le ragioni della crisi politica del Pd. Esse riguardano anche il modello di partito, che inevitabilmente risente del modo di specchiarsi nella società.
Se il partito di massa, nelle sue varie declinazioni conosciute anche nel nostro Paese, sembra tramontato e “irrecuperabile” essendo venuta meno la possibilità di costruire una cornice ideologica “forte”, bisogna chiedersi se davvero l’alternativa obbligata è quella di partito prevalentemente “elettoralistico”. Se la tradizionale dimensione rappresentativa e partecipativa che regolava, in forme molto varie, l’organizzazione dei partiti di massa del Novecento, oggi sembra insufficiente a contenere una società estremamente più complessa, davvero l’unica via è quella di un mix tra forti leadership personali e forme destrutturate, “liquide”, di organizzazione?
Tuttavia è proprio la crisi economica e sociale a dirci che, seppur in forme completamente diverse dal passato, non si può fare a meno di attori politici organizzati, dotati di un’ampia base associativa, che si propongono di svolgere un ruolo di rappresentanza degli interessi sociali, di orientamento e di elaborazione delle politiche pubbliche, di organizzazione del consenso. Se prendiamo in considerazione tutte le “classiche” funzioni che i partiti storicamente hanno svolto in passato – dalla strutturazione del voto all’aggregazione e alla rappresentanza degli interessi sociali, al reclutamento del personale politico – si nota come siano ben lungi dall’essere inutili. Articolare, rappresentare e ricomporre interessi sociali diffusi, proporre obiettivi di trasformazione sociale, promuovere inclusione e coesione sociale, alimentare lo spirito civico dei cittadini attraverso la partecipazione, promuovere una visione della politica come azione collettiva: questi i compiti che non possono essere svolti da partiti di stampo elettoralistico o leaderistico. La crisi del Pd nasce anche da qui: aver dato per scontato la dimensione atomizzata e individualistica della società, dando l’idea di non avere bisogno di quei corpi e strutture intermedie che servono, invece, a instaurare un rapporto diretto tra la leadership e base. Il Pd, piaccia o no, è sembrato troppo spesso un team di politici prevalentemente tesi alla conquista di cariche pubbliche. E la responsabilità di questo piano inclinato non è ascrivibile a un leader o un gruppo dirigente bensì nel decadimento di una visione sociale che ha stentato a trovare una nuova forma politica tra le nebbie della seconda Repubblica.
La chiave per il Pd, adesso, è smetterla di guardare al suo interno per fondersi nella società, ridefinendo un’efficace circolarità di rappresentanza e partecipazione. Perché è solo grazie all’attivarsi di questa circolarità che può arricchirsi la qualità di politiche autenticamente riformiste, grazie all’apporto di conoscenze, competenze ed esperienze che può venire da una rete associativa ampia e ramificata, in grado di interagire e comunicare con i luoghi deputati alla decisione politica. L’organizzazione del partito va ri-progettata esattamente su queste esigenze. Sapendo che la casa dei riformisti dovrà essere ancora più grande e comprendere la sinistra democratica europea.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 13 maggio. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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