Il diario dal Festival di Cannes/5
Nemmeno un festival chic come Cannes può fare a meno della sua dose di cinema di genere orientale, per fortuna. Dopo ore di pellicole d’autore, più o meno ricercate e interessanti riflessioni sulla realtà, pesanti e complesse messe in scena i film di Johnnie To, Blind detective, e Takashi Miike, Wara no tate, sono state una vera boccata d’aria. I due registi, praticamente onnipresenti alle grandi manifestazioni, presentano sulla croisette due pellicole ben riuscite che intrattengono e divertono.
Con Blind detective Johnnie To torna al poliziesco ripartendo da un protagonista, interpretato da Andy Lau, alle prese con un grave handicap fisico, proprio com’era stato lo splendido Johnny Hallyday nel precedente Vendicami. Il detective Johnston è infatti cieco. Questo limite diventa però per To lo spunto per sdoppiare la narrazione, ricostruendo, con uno stile onirico, i pensieri del protagonista. Da quando ha perso la vista Johnston è in grado di rivivere, da piccioli e apparentemente insignificanti dettagli, i movimenti dei criminali a cui da la caccia. Blind detective diventa così un divertente intreccio di piani narrativi, in cui si fondono scene action, momenti di commedia slapstick e atmosfere da film horror.
Molto più fedele al genere poliziesco è invece Wara no tate di Takashi Miike. L’instancabile regista nipponico mette in scena un’incredibile caccia all’uomo lungo le strade del Giappone, costruendo una pellicola dai ritmi serratissimi e coinvolgenti. Capovolgendo però i ruoli sarà la polizia a dover difendere il protagonista, Kiyomaru, dalla furia dell’intera popolazione. Un magnate ha infatti messo una taglia pubblica di un miliardo di yen per chi gli porterà la testa dell’uomo, reo di aver ucciso la sua nipotina. A far da sfondo a questo incalzante racconto i temi cari all’autore, e più in generale a tutto il genere, come la strenua difesa dell’onore e della fedeltà ai propri doveri, l’amicizia, non solo virile, l’amore per una donna ormai irraggiungibile. Due ore di sparatorie, esplosioni, inseguimenti, violenza e scontri in puro stile Miike. Due ore di vero divertimento.
Divertimento che non ci si poteva, purtroppo, attendere da Un château en Italie di Valeria Bruni Tedeschi. L’attrice/regista, osannata dal pubblico francese, mette in scena una scialba pellicola, girata in buona parte anche in Italia, che non scalda mai il cuore. Al di là di alcuni passaggi stilisticamente riusciti, l’opera della regista non sembra distaccasi dai più triti cliché, rimandano continuamente ad una spiacevole sensazione di già visto. La sua presenza nella selezione ufficiale si giustifica probabilmente solo con gli applausi, che una sale Lumiérè di parte, gli ha riservato a fine proiezione.
Arrivati ormai a metà festival ci guardiamo un momento indietro per tirare le fila di un festival che fin ora ha mantenuto le sue promesse. La qualità del concorso, pur non avendo espresso ancora nessuna pellicola indimenticabile, si è mantenuta su standard moto alti, con opere ben dirette e costruite. Molto però c’è ancora da dire. Domani è infatti il giorno di altri due film attesissimi: Behind the Candelabra di Steven Soderbergh e il nostro La grande bellezza di Paolo Sorrentino.