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Il diario dal Festival di Cannes/7

di Giampiero Francesca

solo_dio_perdona_cannesUna grossa sorpresa ed una cocente delusione hanno caratterizzato la terzultima giornata del festival di Cannes. Sempre seguendo il concorso il nostro personale programma prevedeva infatti la visione di Only god forgives di Nicolas Winding Refn e Nebraska di Alexander Payne. Molte erano le attese per il regista dello stupefacente Drive, approdato nuovamente a Cannes in coppia con il suo attore feticcio Ryan Gosling. Forse proprio a causa di una così grande aspettativa però la proiezione di Only god forgives è coincisa con la prima vera delusione della rassegna. Carico di una violenza immotivata, privo di una trama in grado di reggere l’impatto di immagini e scene tanto forti, caratterizzato da una regia schizofrenica, che alterna sequenze da videogame a tratti l’impianto teatrale, l’ultima fatica di Refn appare quasi indecifrabile. In questo confuso pasticcio, certamente più vicino a Valhalla rising che al sorprendente Drive, nemmeno Ryan Gosling sembra trovare un suo ruolo. Privo o quasi di battute, bloccato in un interpretazione incolore, l’attore simbolo di una nuova generazione di talenti, sembra qui perdere ogni confidenza con lo schermo.
Scossi dalla delusione, prima di rientrare in Gran Lumière per la proiezione del secondo film in concorso, decidiamo di dedicarci all’ultima pellicola fuori concorso, All is lost di J.C. Chandor. Una scelta, la nostra, che viene premiata dalla visone di un’opera avvincente incentrata sulla bravura e la fisicità di un grande Robert Redford. Solo, al centro del racconto è del mare, praticamente sempre in silenzio per le quasi due ore di film l’attore dimostra quanto basti una sceneggiatura ben scritta, una regia coinvolgente e un protagonista all’altezza per costruire un prodotto di qualità.
Mentre scende la sera e una croisette ormai molto meno affollata si popola degli ultimi accaniti fan ancora presenti a Cannes, rincuorati dalla visione di All is lost, prendiamo posto per assistere al film di Alexander Payne. In questo caso, lo ammettiamo, partivano un po’ prevenuti. Né Sideways né Paradiso amaro ci avevano infatti pienamente convinti. Così, con un filo di scetticismo, ci ponevano davanti alla visione di Nebraska, pellicola di cui, fra l’altro, assai poco si era parlato prima di oggi. Ed eccola qui la grande sospesa. Il road movie di Payne è infatti un potente racconto della provincia americana, dall’Oregon al Nebraska, fra silos e campi coltivati, piccoli paesi e vecchie case abbandonate, anziani braccianti e giovani abbrutiti dalla televisione. Un’America popolare e vera che un anziano Bruce Dern, interprete del protagonista Woody Grant, riscopre insieme al suo passato. In una meraviglioso bianco e nero, con una regia classica e pulita, con sequenze spesso aperte e chiuse da dissolvenza a nero dal retrogusto vintage, Payne dipinge un affresco americano di grande sensibilità ed efficacia. Quando ormai mancano poche pellicole a chiudere la selezione del concorso ecco giungere come un potente outsider questo Nebraska, che non ci sorprenderebbe affatto nel palmares di questo festival di Cannes.

 

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