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L’economia ferma dei ricchi e dei poveri

di Carlo Buttaroni

poverta_crisiPer il premio Nobel Joseph Stiglitz, quando le disuguaglianze sociali crescono, s’innesca una spirale negativa. Nei Paesi dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri il prodotto interno lordo tende a decrescere. Quando si afferma una grande “classe media”, invece, la prosperità si diffonde.
Stiglitz, analizzando il caso degli Stati Uniti, rileva come nei due periodi storici in cui l’1% dei ricchi è arrivato a concentrare nelle proprie mani il 25% della ricchezza complessiva è poi scoppiata una terribile recessione. È quanto accaduto sia nel ’29 che nella crisi esplosa nel 2008. Due crisi, diverse nelle origini e negli effetti, ma unite significativamente dal fatto che, alla vigilia di entrambe, la polarizzazione della ricchezza aveva raggiunto quella che sembra sempre più una soglia che diventa molto pericoloso oltrepassare. Ancora, nel corso del 2010, quando l’intera nazione americana era nel pieno della battaglia contro la crisi, la piccolissima percentuale di popolazione super-ricca continuava a guadagnare il 93% del reddito aggiuntivo creato nel frattempo dalla fragile ripresa (da questa spaventosa disuguaglianza nasce il movimento Occupy Wall Street, all’insegna dello slogan “Siamo il 99%”).
Il problema principale di tutte le economie avanzate e altamente industrializzate, secondo l’analisi di Stiglitz e Krugman, è rappresentato dalla debolezza della “domanda aggregata”, cioè la domanda di beni e servizi espressa da un sistema economico nel suo complesso. Premesso che la porzione di reddito spesa per l’acquisto di beni e servizi è, per forza di cose, maggiore nei redditi bassi, la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi è diventata un problema strutturale. Questo perché non è semplicemente un portato delle forze del mercato, ma dipende dalle scelte di politica economica che, incentivando le rendite finanziarie e sfavorendo gli investimenti produttivi, hanno orientato le scelte imprenditoriali e industriali in tale direzione. Meno investimenti produttivi significano un’economia meno dinamica e meno florida, minata alla base delle sue prospettive di crescita. A risentirne, inevitabilmente, è la “struttura” produttiva di un sistema Paese, cioè la sua “economia reale”.
L’analisi di Stiglitz è una bomba lanciata nelle retrovie neo-liberiste che partono dall’assunto opposto, e cioè che le diseguaglianze non inficiano in alcun modo la crescita. Anzi, detassare redditi e soprattutto i patrimoni immobiliari e mobiliari dei più ricchi genera un cosiddetto “effetto a cascata”, che dai vertici della piramide fa discendere la ricchezza fino ai livelli più bassi, portando un arricchimento generale e una maggiore crescita. E quanto più lo Stato rimane estraneo a questo processo “naturale”, liberamente guidato dalle spontanee forze economiche, tanto maggiore è il vantaggio che ne traggono l’economia e lo sviluppo del paese (idea alla base della deregulation dei mercati finanziari, ed economica in generale).
Stiglitz ritiene, invece, che il prodotto interno lordo dei paesi segnati dalle maggiori diseguaglianze nella distribuzione complessiva della ricchezza cresce con grande difficoltà e discontinuità, andando incontro a veri e propri crolli. Il motivo di questo fenomeno non risiede nella moralità del pensiero egualitario, ma in un ben individuato meccanismo economico chiamato propensione al consumo. Contrariamente a quanto generalmente si crede, infatti, nei ricchi tale propensione è più bassa, mentre il vero motore dei consumi è il ceto medio, non solo perché rappresenta una platea più ampia, ma anche perché è portato a convertire in consumi una percentuale proporzionalmente molto più elevata del proprio reddito rispetto ai ricchi. Se far ripartire i consumi è una delle principali chiavi delle economie avanzate per far ripartire l’intera economia (insieme a un aumento delle esportazioni), ecco allora l’importanza di politiche che favoriscano una più equa distribuzione della ricchezza e il rafforzamento della classe media. Esattamente l’opposto di quanto avvenuto finora.
Oltretutto la crescita della disuguaglianza coincide con il depotenziamento della cittadinanza sociale e della partecipazione politica che, fino a vent’anni fa, in Italia come in Europa, era considerata un traguardo dello status inclusivo proprio del ceto medio. Ci ha pensato la crisi a spazzare via questa speranza, con il risultato che anche la democrazia si è indebolita nelle forme e nei contenuti.
Adesso viene da chiedersi cosa altro serva per avere la consapevolezza della necessità di politiche completamente diverse, redistributive ed espansive, in grado di far ripartire la domanda interna? Quali ulteriori prove occorrono per comprendere l’urgenza di politiche per il lavoro fondate sulla qualità sociale, sui diritti che sostengano le famiglie e il ceto medio? E chi è più visionario: chi pensa di poter uscire dalla crisi proseguendo sulla strada del “rigore” con road map irrealizzabili o chi ritiene – come Stiglitz e molti economisti premi Nobel – che occorre mettere al centro politiche economiche che superino i paradigmi hanno portato alla situazione attuale? Se è vero che la crisi parte da lontano e affonda le radici nella globalizzazione, è altrettanto vero che ciò che la nutre non è l’interconnessione planetaria, ma l’arretramento della politica dal governo dalle grandi questioni economiche e sociali. Ed è anche su quest’aspetto che Stiglitz, Krugman e altri economisti, più o meno indirettamente, affondano le loro critiche. Aver sottoposto i cittadini a sofferenze incredibili sulla base di teorie e scelte politiche sbagliate.
D’altronde l’inizio del nuovo capitalismo finanziario mondiale prende avvio agli inizi degli anni ’70 con la scelta (politica) del governo statunitense di sospendere la convertibilità in oro del dollaro. Una decisione che ha azzerato gli accordi di Bretton Woods del 1944 che limitavano la circolazione dei capitali. Fu quello il fischio d’inizio della fase espansiva delle teorie iperliberiste, ispirate al pensiero di Milton Friedman che, negli anni ’80, hanno trovato interpretazione nelle politiche conservatrici di Ronald Reagan e Margareth Thatcher, centrate sulla deregolamentazione del mercato, la privatizzazione delle aziende pubbliche, l’alleggerimento della struttura statale e dei sistemi di protezione sociale. La famosa deregulation, cioè l’abbandono del mercato da parte dello Stato, lasciandolo quindi libero di trovare il proprio punto di equilibrio, autoregolandosi, autolimitandosi e autocomponendosi. La promessa è stata mancata, ma gli effetti di quell’impostazione si fanno sentire, con il ritiro della politica dall’economia, dalla produzione, dall’occupazione, de-territorializzando i processi economici staccati sempre più dalle grandezze reali dell’industria. Processo, questo, che ha lasciato spazio alle dimensioni finanziarie della ricchezza, senza che queste abbiano necessità di passare attraverso investimenti nelle attività imprenditoriali e industriali, separando la finanza dalla produzione e assegnando all’economia una dimensione prima cartacea, poi telematica. La rottura della relazione tra capitale e lavoro è stata una conseguenza inevitabile. Come inevitabile è stato il progressivo distacco dell’economia dal territorio e dalla dimensione nazionale, che di quel legame ha sempre costituito l’aspetto politico. Negli anni ’80 ha preso avvio un processo di progressiva indipendenza dell’economia finanziaria dal palinsesto pubblico e in particolare dallo stato e dalla legge. Un processo presto diventato insofferenza per la politica, il territorio, i confini, il limite, la legge e il diritto: elementi avvertiti come ostacoli al consolidamento del potere della finanza. Una finanza che, in questi anni, ha preteso sempre più “mano libera”, rivendicando il potere di invadere i mercati con un rovesciamento dei rapporti di forza non solo tra capitale e lavoro ma anche tra capitalismo e democrazia. E’ questa la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi: dare uno stop alle politiche del rigore che alimentano la crisi e rendono più forte il capitalismo finanziario. Occorre il coraggio di rovesciare i paradigmi che hanno guidato le scelte di politica economica negli ultimi anni, mettendo al centro la questione sociale, il lavoro, i diritti. E per fare questo è necessario un passo avanti della politica. Forse occorre persino una nuova Bretton Woods. E questa sì, sarebbe una rivoluzione.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 24 giugno. Sfoglia il Bes 2013 a cura dell’Istat e del Cnel

 

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