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Il dopo Morsi: cosa succede in Egitto

Intervista a Massimo Campanini, professore di Storia dei Paesi islamici presso l’Università di Trento
di Mirko Spadoni

egitto_protesteEra il 3 luglio ed erano da poco passate le 21, quando Abdul Fatah Khalil Al Sisi, capo delle forze armate egiziane, è apparso sugli schermi della televisione per annunciare la destituzione di Mohamed Morsi. Si concludeva così l’esperienza al governo dei Fratelli musulmani, che di lì a pochi giorni avrebbero celebrato il loro primo anniversario alla guida del Paese. Ma non ne hanno avuto modo, perché oltre 40 milioni di egiziani hanno chiesto a Morsi di dimettersi e lo hanno fatto scendendo per le strade delle città egiziane. Lo hanno fatto, sottoscrivendo la raccolta firme lanciata dal movimento Tamarrod, composto per lo più dai giovani che parteciparono alle rivolte contro Mubarak per poi essere tagliati fuori dalla gestione del potere. Lo hanno fatto anche grazie all’intervento dell’esercito. E così c’è chi ha parlato di un golpe militare (il premier turco Erdogan) o chi ha parlato del fallimento dell’Islam politico (il presidente siriano Bashar al Assad).
In realtà, come vedremo nel corso di questa intervista a Massimo Campanini, professore di Storia dei Paesi islamici presso l’Università di Trento, i fattori che hanno portato alla caduta di Morsi sono molteplici.
“Morsi – spiega a T-Mag Campanini – si era presentato come il legittimo erede della rivoluzione che aveva abbattuto Mubarak. Se poi passiamo ad analizzare quanto fatto nel corso di questo anno, notiamo subito due differenziazioni abbastanza nette: per quanto riguarda la politica estera, Morsi è riuscito ad imprimere un dinamismo alla diplomazia egiziana, cosa che non accadeva da tempo. Morsi ha riportato l’Egitto al centro della scena, aprendo alla Cina, all’Iran. Riconsegnando così al suo Paese il peso diplomatico che era stato perso sotto Mubarak. Per quanto riguarda la politica interna gli esiti sono stati meno positivi: il governo dei Fratelli musulmani non è riuscito ad imprimere una svolta all’economia. Questa mancata capacità ha senza dubbio influito sul cambiamento di opinione di una parte degli egiziani nei confronti di Morsi”.
Ma non è tutto. “Un altro aspetto negativo della presidenza Morsi – racconta infatti il professore – è stato il tentativo di monopolizzare il potere. Una volta arrivati al governo, i Fratelli musulmani si sono illusi di poter gestire le istituzioni senza far riferimento alle forze d’opposizione, che non si riconoscevano nel processo di islamizzazione moderata dei Fratelli musulmani. Il culmine di questo atteggiamento monopolizzatore s’è verificato nell’estate del 2012, quando Morsi ha cercato di tenere sotto controllo la magistratura. Arrivando poi all’approvazione della Costituzione tra novembre e dicembre. Da questo punto di vista, possiamo dire che i Fratelli musulmani non sono riusciti a divenire una forza egemonica in grado di coagulare le diverse anime politiche del Paese. A parziale discolpa dei Fratelli musulmani possiamo ammettere che non gli è stato concesso abbastanza tempo per poter governare: fin dall’inizio le forze d’opposizione si sono contrapposte frontalmente, rifiutando il progetto dei Fratelli musulmani e rifiutando quella che era stata una legittima vittoria elettorale e democratica”.
Tra i tanti attori coinvolti negli eventi, che hanno poi portato alla destituzione di Morsi, ce n’è stato uno in particolare che ha ricoperto un ruolo fondamentale, l’esercito. Anche se va detta una cosa: non si può certo dire che la giornata del 3 luglio sia stata preparata dai vertici militari, ma è certo che essi erano pronti a dare agli avvenimenti l’indirizzo che volevano. Cosa che, secondo Campanini, al momento gli è riuscita perfettamente e gli ha così permesso di riprendersi una rivincita sull’ormai ex presidente egiziano e il partito dei Fratelli musulmani: “Alla caduta di Mubarak, i vertici militari avevano cercato di gestire una transizione morbida, con l’intento di evitare un cambio di regime radicale, che avrebbe potuto compromettere i loro interessi, la loro autorità e soprattutto i loro privilegi. Perché non dobbiamo dimenticare una cosa: in Egitto, i militari non solo i garanti dell’unità e della stabilità del Paese, ma sono principalmente una forza economica. I militari avevano quindi cercato di cambiare tutto senza cambiare niente, in maniera un po’ gattopardesca. Volevano, alla caduta di Mubarak, far mantenere il regime presidenziale. Tuttavia, il loro piano iniziale fu messo in crisi dalla vittoria dei Fratelli musulmani, che riuscirono a presentarsi come gli unici interpreti della rivoluzione”.
“Poi ci fu – racconta il professore – uno scontro tra questi due attori. Contrasto esploso nell’estate del 2012. Quando i militari avevano facilitato da parte della magistratura suprema lo scioglimento del Parlamento e avevano cercato di porre dei limiti ai poteri molto ampi, che la Costituzione garantisce al presidente. Ma Morsi riuscì a tenere sotto controllo la situazione, defenestrando il maresciallo Tantawi, che era ministro della Difesa, e mettendo al suo posto l’attuale capo del Consiglio delle Forze armate, ovvero il generale Al Sisi. Il conflitto – prosegue Campanini – sembrava essersi risolto a favore dei Fratelli, tuttavia l’esercito ha ripreso il controllo della situazione, arrestando Morsi”.
Ma c’è di più secondo Campanini, perché “l’esercito sbandierando la sua volontà di rispettare la volontà popolare di opposizione a Morsi, è riuscito a riproporsi come fattore determinante della vita politica del Paese e quale reale ago della bilancia”. Detto questo, è necessario tener conto di un aspetto: quanto fatto dai vertici militari nasconde dei secondi fini, neanche troppo velati. “Non bisogna – ammonisce il professore – identificare nell’esercito delle inclinazioni democratiche. I militari vogliono solo salvaguardare il loro ruolo centrale nel sistema Egitto, confermando la tradizione che prosegue da Nasser a Sadat, passando per Mubarak. E quindi tornando a quello che era il piano originario: permettere una transizione morbida, cambiando il cavallo senza cambiare la troika”.
E’ passato ormai qualche giorno dalla caduta di Morsi, Adli Mahmud Mansur è stato nominato presidente ad interim, mentre Hazem El Beblawi è il nuovo premier. Tuttavia la situazione non sembra destinata a migliorare nel breve periodo. I sostenitori dell’ormai ex presidente non si arrendono, scendono quotidianamente in Piazza per manifestare il loro dissenso. Insomma, siamo di fronte ad un Paese lontanissimo dal trovare una stabilità politica. Stabilità, a detta di Campanini, fondamentale per il futuro dell’Egitto.
“Se non si arriva ad una convergenza di opinioni tra le varie forze politiche – sottolinea il professore – l’Egitto è destinato ad un futuro di estrema instabilità. Detto questo: non credo che sarebbe possibile politicamente saggio e produttivo, escludere completamente i Fratelli musulmani dalla gestione del potere. Quindi è necessario un governo di unità nazionale, che tenga conto delle varie inclinazioni politiche. Se l’esercito consentirà questo tipo di esperimento e se i Fratelli Musulmani saranno disposti ad arrivare ad un piano di confronto, è possibile che il futuro dell’Egitto possa essere relativamente roseo. Ammesso e non concesso che i nuovi dirigenti abbiano le capacità per affrontare le gravi difficoltà economiche del Paese. Se mancherà questa volontà unitaria, c’è da presumere che il Paese vivrà una fase di elevata instabilità. E tutto questo – conclude Campanini – sarebbe molto pericoloso sia da un punto di vista interno, che internazionale”.

 

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