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L’Italia invecchia senza investire

Nel 2050 il 40 per cento della popolazione sarà over 60, gli under 15 appena sopra al 10%

anziani_italia_crisiTra il 1850 e il 1950 la popolazione del pianeta è cresciuta di 1,3 miliardi. Nel 2050 la supererà i 9 miliardi, con un incremento di 6,6 miliardi rispetto a cento anni prima, mentre verso la fine del secolo dovrebbe varcare la soglia degli 11 miliardi di individui. Ma le stime per i prossimi decenni evidenziano anche un’altra dinamica, ben più importante e imponente: il progressivo invecchiamento della popolazione. Oggi sono 810 milioni gli anziani in tutto il mondo, ma si prevede che il numero raggiunga il miliardo in meno di dieci anni e raddoppi entro il 2050, toccando i 2 miliardi. Nel 2050, ben 64 paesi avranno oltre il 30% di anziani.
Il fenomeno dell’invecchiamento è il più significativo cambio strutturale delle società del 21esimo secolo. Ha origine da due dinamiche confluenti: la crescita dell’aspettativa di vita e la diminuzione dei tassi di fertilità. Negli ultimi cento anni la vita media è più che raddoppiata e in soli 50 anni il tasso di fertilità si è quasi dimezzato, passando da 5 figli per donna (nel 1950) a 2,7 (nel 2000), fino a toccare, secondo le stime, i 2,1 entro il 2050. La piramide delle età si capovolge: prima caratterizzata da un’ampia base costituita da giovani, che si sta riducendo velocemente, a vantaggio di un vertice anziano sempre più in espansione.
Nel 2045, per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione anziana (oltre i sessant’anni) e quella giovane (sotto i quindici) rappresenteranno la stessa quota della popolazione mondiale.
In Europa, il passaggio della staffetta tra giovani e anziani è avvenuto già all’inizio degli anni Novanta e oggi stiamo assistendo al progressivo pensionamento della generazione nata negli anni del “boom demografico”, quella che garantì al sistema produttivo le risorse umane necessarie a sostenere la crescita economica e ai sistemi di welfare un ampio bacino di approvvigionamento finanziario. Oggi il sistema presenta una crescente sproporzione, in termini percentuali, tra popolazione attiva e non attiva. Da un lato si registra un prolungamento del periodo di permanenza degli anziani a carico del sistema di protezione sociale, dall’altro cresce il numero di anni che precedono l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Sta avvenendo il contrario, cioè, di ciò che servirebbe per tenere in equilibrio il sistema.
La base fiscale si riduce, mentre aumentano i costi determinati dall’aumento della popolazione anziana a carico del sistema stesso. Le entrate e la spesa pubblica, infatti, risentono inevitabilmente delle caratteristiche anagrafiche della popolazione, poiché le prime derivano principalmente dalla tassazione dei redditi da lavoro (e, quindi, il periodo di massima contribuzione degli individui coincide con l’età lavorativa adulta), mentre le punte massime della spesa pubblica si concentrano nelle due fasce estreme: la prima tra 0 e 20 anni e la seconda tra i 60 e gli 80 anni, con il secondo picco che supera abbondantemente il primo ed è in veloce crescita.
Per quanto riguarda l’Italia, il prolungamento dell’età lavorativa è una soluzione che sposta in avanti il problema, senza risolverlo. Anzi, rischia di aggravarlo in una fase come quella attuale, segnata da tassi di disoccupazione particolarmente elevati, dai tagli ai servizi pubblici e da livelli retributivi insufficienti. E l’indebolimento della catena familiare, principale fornitore di servizi socioassitenziali (attraverso nonni e parenti) non sembra più in grado di sopperire al deficit d’infrastrutture sociali.
Tra le cause del ridotto tasso di natalità dell’Italia ci sono la rigidità del mercato del lavoro, la mancanza di strumenti che agevolino la conciliazione fra il lavoro e maternità e la carenza di servizi pubblici per la cura dei bambini in età non scolare. Fattori che hanno pagato un prezzo altissimo alle politiche del rigore con i tagli alle prestazioni.
Quanto le infrastrutture sociali rappresentino un elemento fondamentale per incentivare le nascite emerge anche da un’inchiesta dell’Economist sulla situazione delle donne in Germania e in Giappone, ma è perfettamente adattabile alla realtà del nostro Paese. Le giovani donne tedesche trovano difficile combinare il lavoro con la famiglia per una serie di ragioni pratiche, dall’orario scolastico alla mancanza di servizi di cura per i bambini. Per far fronte a questa situazione, molte sono costrette a lasciare il lavoro, mentre altre rinunciano ad avere figli. Un quarto delle donne tedesche a 40 anni non ha figli. Il tasso di natalità del paese è di 1,3, lo stesso del Giappone e dell’Italia, con la quale condivide attitudini simili, ma un’offerta d’infrastrutture sociali assai più carente.
Il Giappone sta cercando di affrontare il problema con politiche fiscali per favorire la maternità. Una strategia che sembra, però, non dare i frutti sperati e si sta rilevando poco efficace, considerato che il 70% delle donne nipponiche lascia il lavoro dopo la nascita di un figlio, quasi la stessa percentuale delle donne italiane. Se gli incentivi fiscali non sembrano essere una risposta al problema, altri strumenti adottati in diversi Paesi hanno prodotto risultati migliori.
Ricerche estese all’area Ocse mostrano che esiste una forte relazione fra alto tasso di occupazione femminile e trasferimenti di denaro alle famiglie, disponibilità di part-time e cura per i bambini. Dove tutte queste misure sono presenti, il tasso di natalità è cresciuto. E’ così in Francia e nella maggior parte dei Paesi nordeuropei che hanno intrapreso politiche di sostegno economico alle famiglie e di potenziamento delle infrastrutture sociale che hanno portato a un aumento della natalità. Naturalmente, non si tratta di scelte “a costo zero” sul bilancio pubblico: questi Paesi destinano, infatti, fra il 3 e il 4% del Pil all’investimento sulle generazioni future. Sicuramente si tratta di quella spesa pubblica “produttiva”, capace di contenere i maggiori costi in un futuro non troppo lontano, conservando, nel contempo, in equilibrio finanziario il sistema previdenziale e socioassistenziale. Anche America e Gran Bretagna hanno tassi di natalità piuttosto elevati e cospicua occupazione femminile, pur senza adottare specifiche misure di sostegno finanziario alla maternità. In entrambi i casi, però, il mercato del lavoro più dinamico consente alle donne di rientrare nel mondo del lavoro più facilmente dopo la nascita di un figlio e comunque i livelli retributivi notevolmente più elevati consentono alle donne, attraverso la possibilità di affidarsi a soluzioni private, di conciliare più facilmente il lavoro con la cura dei figli. Quale sia la soluzione più efficace, lo scopriremo solo tra qualche anno. La consapevolezza però c’è e si cercano le strategie migliori per evitare che una popolazione sempre più numerosa e sempre più anziana gravi su quella più giovane. In Italia non solo non si sta adottando nessuna politica per le donne e la maternità, ma manca perfino un dibattito sul tema che vada oltre le solite enunciazioni di principio. In attesa che il problema si presenti in tutta la sua gravità. Per ritrovarci, come sempre, in uno stato di emergenza.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 22 luglio. Sfoglia l’indagine Tecnè

 

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